Diciamo la verità, ognuno di noi mente, almeno un po', almeno qualche volta, per non sembrare da meno, per darsi un tono, perché, insomma, tutti lo fanno e perché dovrei essere io il primo a non farlo?
Ci sono libri che fingiamo
d'aver letto. Tipo l'Ulysse di Joyce, sul quale è facile mentire, è
la cronaca di una giornata inconcludente di Mr Bloom e alla fine c'è
un pezzo che chiamano il monologo di Molly Bloom (che in poche pagine
ti da il succo di tutto e al massimo leggi l'incipit e sto pezzo qua
– perché ci stia anche Stephen Dedalus, lo sanno solo i professori
universitari di una certa età). Si mente bene: il flusso di
coscienza, lo stile, la ricerca linguistica che inventa e complica e
bla bla bla, voilà. Pare che l'hai letto tutto.
Con l'altra montagna di
menzogna che è “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust, le
cose non sono così semplici, ma nemmeno impossibili. Certo, sono
sette libri, ma come te che non li hai letti per intero, molti altri,
e quei pochi che invece l'hanno fatto, non è che possano ricordarsi
tutto, eh. Una chiacchiera sull'atmosfera, sui personaggi che
girandolano tra i libri tra salotti e amorazzi franciosi, una
stoccatina alle promiscuità dell'autore che magheggia sul sesso dei
personaggi, ed è fatta. La stragrande maggioranza ce la fa. La
stragrande maggioranza si è addormentata a pagina tre del primo
libro, mentre il protagonista ci racconta come da bambino stentasse
ad addormentarsi, pagine di sublime xanax.
E poi chiedere le madeleines
col the, al bistrot, insieme a qualcuno su cui vuoi fare buona
impressione, crea quel tanto di charme che basta e avanza, ma è
raro, le occasioni così raffinate sono ormai molto quasi estinte,
più facile farsi un tramezzino o un supplì in coppia, al massimo
una cenetta "Ar Bucatino", stronca qualunque resistenza al
libero rilascio di libido.
Beckett è perfetto invece,
facile facile. I suoi romanzi sono peggio dell'Ulisse di Joyce, come
se il buon Samuel, che per un po' gli fece da segretario, avesse
raccattato pezzetti di scarto senza capo né coda e li avesse poi
riattaccati a casaccio, messo un titolo (che di solito è un nome) e
pubblicati. Quelli che li hanno letti per intero sono estinti.
Beckett non crea problemi, appena lo citano si esclama: “Ah, beh,
sì, “Aspettando Godot!”, e ciccia, scappa sempre una risatina
collettiva, per passare rapidamente ad altro.
Potrei fare altri esempi, ma
non voglio dilungarmi, ci siamo capiti. Siamo tutti complici.
Questo lo sappiamo e lo
facciamo tutti.
Io però qui, vorrei dire
soprattutto di un'altra cosa. Che a me capita, ma non so se realmente
capiti a molti altri o no, forse sì. Mi conforterebbe.
Non riuscire a finire di
leggere un libro.
Ma come? È la cosa più
facile. Se non ti piace, smetti di leggerlo.
No, non è questo che
intendevo.
Io volevo dire che quando un
libro mi piace tantissimo, ma proprio così tanto che, per non
uscirne fuori, smetto di leggerlo, lo lascio in sospeso. Ogni tanto
lo riprendo, vado avanti di poco, rileggo quello che ho già letto.
Posi, prendi, ti ci perdi, e
poi per il panico che ti prende mentre ti accorgi che le pagine
diminuiscono, lo metti via. Smetti di leggerlo. Lo lasci in evidenza,
ma non lo leggi più, per settimane, mesi, anni. Con qualche ritorno,
in cui rileggi, ci sprofondi e poi lo molli ancora, perché non vuoi
che sia lui a mollare te, come in una di quelle storie d'amore
assurde che finiscono perché uno lascia l'altro perché ha paura
d'essere lasciato. Nella vita capita. Nella lettura, anche. Almeno a
me capita. Però, in genere, agli altri sento dire, a proposito di un
libro che stanno leggendo: “Non vedo l'ora di finirlo”, oppure
hanno finito di leggerlo d'un fiato e: “Ci sono rimasto male quando
l'ho finito. Avrei voluto che non finisse mai.” - che mi pare
assurdo.
Perciò sto zitto e penso che
io invece faccio in un altro modo; quando lo faccio per me è come un
colpo di fulmine, il libro mi prende talmente tanto che non posso
finirlo, non voglio che termini mai e perché questo avvenga, devo
smettere. Sono le mie folli passioni tenute in vita come uno strambo
Don Giovanni della lettura che abbandona tutte le proprie amanti per
tener vivo ciò che morirebbe, e lascia che tutto canti e risuoni, ma
resti sospeso per sempre, al riparo dalla fine, che sempre appartiene
ad ogni cosa, alla vita, all'amore, nella realtà ma che alle vite e
agli amori che i libri mi accendono, tento, con disperata passione,
di evitare.
Nel tempo, però,
naturalmente, non ho resistito con tutti, arriva un momento nel
quale, come in una coppia di vecchi amanti, bisogna giungere alla
fine e terminare, L'ho fatto, ma devo confessare con una serenità e
con un appagamento, dati dalla consuetudine che nel palazzo della mia
memoria e dei miei affetti si sviluppa grazie alla sospensione
temporale, per cui ogni libro si è concluso senza quel trauma che,
se l'avessi finito subito, avrei avuto.
Non sono molti ovviamente, le
grandi vere passioni, non possono essere dissipate nella quantità.
Ma ci sono e non so di qualcun altro che lo faccia.
Al momento, per dirne solo
due, c'è la storia di un ingenere che vive in tempo di pace e quella
di un pittore che ha dipinto un quadro davanti al quale
immancabilmente piango che non posso veder morire, che non posso
finire di leggere, perché in quelle storia ancora voglio restarci,
quelle storie che la carta stampata delimita in pagine, ma la mia
fantasia e le mie emozioni, no. Cos'altro potrei fare?
Leggere, per cercare qualcosa
di talmente bello, da doversi fermare, perché non smetta mai di
scuotere la smania di esistere, oltre la vita, le pagine, sé stessi.
©francescorandazzo
Nessun commento:
Posta un commento