Chi
non ricorda quelle mensole nei salottini di quarant'anni fa, con quei
libri dalla costola marrone e i caratteri dorati, che davano un tono
serio e il sentore di letture praticate con solerzia da casalinghe,
operai, impiegati, segretarie, studenti? Chi non li ricorda è molto
giovane, ma forse li avrà intravisti in qualche vecchio tinello di
famiglia. Erano gli anni sessanta e settanta, quei libri erano le
raccolte di “Selezione dal Readers Digest”, formula editoriale
d'importazione americana (lì dagli anni quaranta). In Italia dal
1959, nel periodo, quindi, in cui la televisione cominciava ad
acculturare il pubblico da Nord a Sud, e a rendere l'italiano una
lingua finalmente parlata da tutti o quasi, quei libretti
diffondevano in modo semplice e accattivante, stralci di letteratura,
germi di curiosità, aiutavano ad una alfabetizzazione culturale che,
pur nel suo semplicistico porgersi, dava tenerezza e aveva un senso
proprio per la popolarità che aveva. Altro merito erano le offerte
di abbonamenti a prezzi accessibili, e il giradischi stereo a prezzo
stracciato, anche a rate, che ti inviavano a casa insieme a 10 dischi
a 33 giri di musica classica. Generazioni di italiani, compreso me,
hanno cominciato così, spulciavo le raccolte di mia madre; dopo un
po' non mi bastarono e passai decisamente ai libri in edizione
originale. Molti sono passati a leggere i libri per intero, ad
ascoltare musica (non solo canzonette) come abitudine consolidata.
Erano i tempi in cui tutti i padri e le madri ambivano che i figli si
diplomassero e persino si laureassero, diventando migliori,
emancipandosi con un salto di qualità culturale e professionale che
avrebbe dato senso e gioia alle vite di duro lavoro che avevano
vissuto i genitori. Si riempivano gli scaffali del soggiorno, con
"Selezione", con le enciclopedie per i figli, anche queste
comprate a rate, messe in bella mostra a dire “qui si studia”,
“qui vogliamo migliorare”. Molti di quei figli infatti hanno
studiato, si sono diplomati, si sono laureati, hanno compiuto il
salto sociale, sono diventati quel che nella stragrande maggioranza i
loro genitori non avevano potuto essere.
Da
qui, lentamente, con una auspicabile consequenzialità, ci si sarebbe
aspettato che la lettura, insieme allo studio e anche dopo il corso
scolastico, crescesse come abitudine, sempre più diffusa e
consolidata.
Non
è successo.
La
televisione da scuola d'intrattenimento ed educazione popolare, è
diventata sempre più luogo di commercio e smercio per contenuti
sempre più vuoti ma accattivanti, facili, populistici, dilavatori di
cervelli e coscienze. I figli laureati hanno avuto altri figli, meno
laureati, spinti più che all'educazione, più che alla cultura come
mezzo di crescita e arricchimento personale, al far qualcosa che
portasse soldi, sempre più soldi. E in un paese nel quale, comunque
da sempre “la raccomandazione” è valsa carriere altrimenti
impossibili, quei genitori, consapevolmente o meno, attraverso la
loro delusione, hanno ammesso a se stessi che forse era meglio che i
figli imparassero a sfangarsela con un accurato marketing d'immagine
e non per quel che realmente erano, o sarebbero potuti diventare. I
reality show hanno dimostrato che non saper far niente può renderti
famoso e ricco; internet (che pure è un mezzo straordinario) è
diventato l'alibi per non sapere nulla e credere a tutto, senza
nessuna verifica critica, perché tanto serve a niente ed è più
vero un fake condiviso un milione di volte che una verità con poco
appeal e nessuna risonanza mediatica.
Siamo
arrivati, dunque, dopo tre generazioni, al paradosso, di quello che
viene chiamato “analfabetismo di ritorno”. A parte l'altissimo
numero di abbandono degli studi universitari, quelli che ce l'hanno
fatta, praticamente non leggono quasi più, non studiano, non si
aggiornano, e dopo anni di abbandono, praticamente non sanno quasi
più né leggere, né scrivere.
Gli
indici nazionali di lettura sono bassissimi. Dai sondaggi le risposte
di spiegazione da parte dei non lettori sono grosso modo,
principalmente due: - non mi serve/non serve a niente/non mi seve più
– e – non ho tempo.
Quindi
leggere è passato ad essere, da un investimento del tempo ad una
perdita di tempo.
Iniziative
di marketing di disperata imbecillità ne abbiamo visti nascere e
morire nel volgere di un soffio di vento, dai libri quadrati a forma
di cd, a quelli che si leggono in orizzontale, tentativi
imbarazzanti, e falliti.
Ma
ecco che con una bella capriola all'indietro, dopo qualche anno dal fallimento di “Selezione dal Readers Digest”, spuntano
i “Distillati”, belli, super pubblicizzati, rapidissimi. La metà
del tempo.
Bene,
si potrebbe dire, ricominciamo, riproviamoci, qualcuno verrà
acchiappato dalla lettura, dopo un po' vorrà di più.
Non
è così, non sarà così, non c'è nessuna spinta “educativa”,
soltanto un'idea di marketing per gente stanca e pigra, te la spiccio
io, con poche parole. Tanto più che, proprio nella promozione di
questa distilleria, si rimarca con forza e con un bel giro di parole,
che non si tratta di riduzioni, adattamenti, ma appunto di
“distillati”, riscritture che esalano la grappa cartacea, un
bicchierino e sei giù ubriaco di letteratura, ci pensano loro a
propalarti il meglio, facile, che scende giù e appaga.
Un
bel fallimento per una delle nazioni più ricche di cultura e arte
del mondo, un solenne fallimento, per un paese che vede i migliori
andare via o restare schiacciati da un sistema di non meritocrazia
assolutamente radicato. Nel quale, alla fine, leggere non serve, però
un pochetto sì, una sveltina libresca mette la coscienza a posto.
Distillati per peccatori d'ignavia mentale.
Quello
che cinquant'anni fa era una spinta in avanti, oggi è un enorme
passo indietro. Una riduzione ai minimi termini di ciò che dovrebbe
essere un ampliamento ed uno stimolo al raggiungimento dei massimi
termini personali e sociali. Impoverire la lettura, significa,
brutalmente, eliminare parole, quindi concetti articolati, idee,
coscienza, critica. Cui prodest?
Perché,
per attirare lettori, i grandi non pubblicano e pompano come novità
straordinarie, nuove, moderne, rapide anche, i libri di racconti,
classici ma soprattutto contemporanei migliaia, bellissimi, rapida e
abilissima sintesi compiuta di storie, parole e pensieri. E
potrebbero essere anche un trampolino a letture più corpose.
Basterebbe
la stessa campagna pubblicitaria, applicando la stessa spinta d'appeal e
marketing.
Sarebbe
un bel salto in avanti, invece no, la scusa è che non si vendono. In
realtà non si vendono perché non si vedono come e quanto si
potrebbe farli vedere e conoscere.
In
Francia, per dirne una, le ferrovie mettono a disposizione dei
viaggiatori una biblioteca gratuita di centomila titoli, perché sul
treno il tempo di leggere c'è. In Italia siamo ancora al problema
enorme dei treni locali gestiti come carri bestiame e solo Le Frecce
di mille colori hanno il wifi. E poi, chi legge libri in digitale,
pochi, pochissimi, troppo difficile e complicato (sic).
Più
efficace vendere un libretto svelto che qualcun altro dice di aver
reso perfetto per le tue esigenze di lettore gazzella che ogni giorno
si sveglia per fuggire dal leone del proprio pensare.
Più
facile vendere grappa di Buddenbrock o un Martini Fitzgerald. Il
resto si butta, anzi evapora via per naturale processo editoriale di
distillazione.
Risuonano
oggi, più sinistre e attuali che mai queste parole:
“Noi
non vogliamo convincere le persone delle nostre idee, noi vogliamo
ridurre il vocabolario, in modo che possano esprimere soltanto le
nostre idee.”
Funziona.
Pare l'abbia detto Goebbels.
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