È
forse uno dei casi editoriali del momento o perlomeno se ne parla
molto. Ecco quindi che, spinta dalla curiosità, mi accingo a leggere
il nuovo romanzo di Emanuele Tonon, “Fervore”, edito da
Mondadori. L'argomento, un anno di noviziato nel convento francescano
di Renacavata, nel Centro Italia e il coinvolgimento diretto
dell'autore che parla di un'esperienza autobiografica sono tutti dati
a favore: questo libro, viste le premesse, mi intriga. Parto quindi a
leggere con entusiasmo e senza pregiudizi. Certo che quando fin dalle
prime pagine mi imbatto in espressioni come “dossologia del vento”
("ogni alba il nostro fiato diventava una dossologia del vento")
o in frasi tipo: "Eravamo la glossolalia finale", resto un
attimo perplessa. Il linguaggio è ambizioso, poetico e richiede la
presenza dello Zanichelli (e qui potrei fare un primo appunto:
autori, per chi scrivete? Pensate che il vostro lettore medio abbia
fatto l'Accademia della Crusca e che usi quotidianamente termini come
“dossologia” e “eoni” o al contrario lo reputate così
inferiore e sprovveduto da sentire il bisogno di marcare l'abisso
culturale che vi divide? Non è chiaro). Tonon descrive un
personaggio corale e infatti usa sempre la prima persona plurale:
noi. Racconta, con un linguaggio volutamente anti-naturalistico, il
gruppo dei novizi, un insieme in cui non esistono più volti, corpi,
storie ma dove le individidualità sono sostituite e riassunte da un
unico fervore. È un percorso fatto di azioni che si ripetono, di
luoghi che racchiudono segreti, una narrazione visiva, olfattiva,
acustica che passa attraverso le sensazioni. Anche noi sentiamo il
freddo delle stanze destinate alla preghiera, l'alito cattivo dei
monaci, la ruvidezza del saio, l'odore della terra che i novizi
lavorano nella speranza di seminare qualcosa che crescerà,
ascoltiamo le voci stridule che cantano cercando l'accordo,
percepiamo la voglia dei corpi di unirsi in un contatto carnale o
forse solo umano e la colpa che spinge a percepirsi invece anima
angelica, senza bisogni e desideri. Si capisce tra le righe che per
la maggior parte degli aspiranti sacerdoti la vocazione religiosa,
piuttosto che una chiamata spirituale, sia l'unica soluzione
possibile, una fuga dalla miseria o dalla disperazione personale, il
tentativo di sublimare il dolore di un'esistenza allo sbando in
qualcosa di nobile e alto, forse per non sentirlo davvero. Il libro è
diviso in capitoli che però non scandiscono un percorso, casomai
focalizzano alcuni momenti di quell'anno di noviziato. Forse il più
bello è “Il dolore del canarino”, dove finalmente l'autore ci dà
qualche notizia su di sé, sulle motivazioni che l'hanno spinto alla
scelta del convento. Tra le righe si intravede per la prima volta il
diciottenne costretto a dieci ore al giorno di lavoro in fabbrica, il
ragazzo che sta stretto in una vita ingiusta, che non può
permettersi la tuta da sci nella settimana bianca scolastica e fa la
pipì a letto a dieci anni perchè sente l'umiliazione della carità,
l'adolescente ribelle che lascia la famiglia e cerca in Dio l'amore
mai ricevuto. Ed è questo il vero problema del libro. È come se ci
fossero due autori: quello che vorrebbe svelarci il volto del
protagonista, che ci parla della sua vulnerabilità da canarino,
della differenza sociale, della solitudine, dell'emarginazione che lo
spinge a sentirsi parte di un progetto esistenziale condiviso e
quello che cerca invece il tono aulico, l'ampollosità dei termini, e
porta avanti la narrazione epica di quel noi dall'inizio alla fine,
come un mantra anestetizzante. Alla fine però, purtroppo, il secondo
narratore nasconde il primo e il romanzo ripete e ripete lo stesso
concetto, gli stessi temi senza stupirci con un contrasto, con un
percorso personale, con una presa di coscienza, diventando alla lunga
noioso e restando generico.
©Laura Forti
Fervore
di Emanuele Tonon
Mondadori editore
ISBN: 880465046X
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