Quando
la minore delle sorelle Bucci, Andra, è entrata per la prima volta
nel padiglione israeliano a Auschwitz – un padiglione molto bello,
emozionante, dotato di grandi immagini video proiettate sui muri
bianchi, coperti da decine di copie di disegni fatti dai bambini del
campo – per un attimo il cuore le si è fermato. Davanti a uno di
questi disegni dai tratti incerti, infantili, raffigurante il treno
della deportazione, qualcosa dentro di lei si è sbloccato, è rinato
come in un'epifania dolorosa. Andra non riusciva a ricordare niente
di quel viaggio verso Auschwitz, fatto ad appena quattro anni,
insieme alla madre e alla sorella Tatiana, e adesso, grazie
all'immagine disegnata da un altro bambino, quel treno aveva ripreso
vita, i ricordi erano tornati all'improvviso, dopo settant'anni. Era
di nuovo là, su quel vagone piombato con le due piccole finestre in
alto, il secchio per i bisogni corporali di centinaia di persone
stipate, un po' di pagliericcio per terra per un viaggio di una
settimana. Anche se non possiamo certo paragonarci a Andria e alla
sua storia, anche per noi andare ad Auschwitz è stato un po' come
ritrovare quel disegno fatto da un altro bambino. Enrico, mio marito,
in quel lager ha perso il nonno e il bisnonno e ha dovuto spezzare il
silenzio di suo padre e della nonna paterna per sapere, per conoscere
qualche frammento di memoria familiare; io ho vissuto invece la Shoah
attraverso una madre cacciata da scuola a undici anni che si è
ritrovata a nascondersi, a fare il partigiano nella macchia
grossetana armata di pistola in quanto ebrea e ha provato lo shock di
essere sopravvissuta a cugini e amici finiti nel fumo. La nostra
infanzia è stata minacciata da questo uccello nero rapace, da questa
belva cattiva, dall' ombra pericolosa del paese del Laggiù, come lo
chiama David Grossman in “Vedi alla voce amore”. Siamo stati
anche noi dei piccoli Momik, confusi e impotenti. Abbiamo letto tutti
i libri possibili, abbiamo visto film, abbiamo voluto sapere tutto
fin nei minimi dettagli, bere fino all'ultima goccia di informazione
e racconto. Abbiamo fatto spettacoli e scritto testi sulla Shoah. Ma
adesso, essere qui, ad Auschwitz, è diverso. E' ritrovare il posto
tanto temuto nella nostra infanzia, la tana dell'orco, riconoscerlo
come lo scenario dei propri incubi e nello stesso tempo attribuirgli
una nuova terribile concretezza che lo radica nella realtà,
spostandolo dal piano della fantasia solitaria a quello degli altri:
loro, le vittime. Questo non è più l'Auschwitz di singoli bambini
spaventati da una creatura delle tenebre, terribile e perversa, è
l'Auschwitz della realtà. Il viaggio ha significato entrare a poco a
poco in un disegno incerto che si riempiva sempre più di
particolari, frecce, connessioni, è stato un lento sprofondare in un
fango freddo e viscido, una discesa in un abisso sordo da cui ora è
difficile riemergere. No, non è la stessa cosa pensarlo da casa, è
diverso esserci. E' importante esserci, far schiudere l'uovo del male
e assistere alla nascita del mostro. Ci sono cose che prima non
sapevo e adesso so. So che quando Tatiana Bucci parlava della baracca
dei bambini io potevo vederla davanti agli occhi perchè ci ero
appena stata. Sapevo com'era fatta quella maledetta baracca, vedevo
le travi mangiate dall'umidità, i ripiani che fungevano da letti, la
finta stufa mai accesa, i piccoli lavandini senza acqua con
l'appoggio per un pezzo di sapone mai ricevuto. Sapevo che i bambini
ci stavano ammassati come animaletti braccati, che di giorno
giocavano davanti allo spiazzo spelacchiato – perchè l'erba se la
mangiavano – incustoditi, esposti al freddo che a Cracovia arriva
anche a meno quaranta gradi in inverno. Che la mansione più ambita
era spingere il carro dei cadaveri, un lavoro faticoso e durissimo ma
che almeno dava la possibilità di attraversare il campo e di
rivedere la mamma, sogno e speranza di tutti (un sogno che i nazisti
conoscevano bene, quando Mengele ebbe bisogno di venti bambini per i
suoi esperimenti sulla tbc, chiese al gruppo quanti volessero
rivedere la loro mamma; quei venti, tra cui il cuginetto delle Bucci,
Sergio, finirono impiccati a Bullenhuser Damm dopo atroci torture).
Grazie alla nostra guida italiana, Michele, adesso so che la vita
media a Birkenau dall'arrivo era di quaranta minuti per l'80% dei
prigionieri. Che le donne ritenute inabili a lavorare venivano
mandate in una baracca (vista, anche quella) a aspettare di essere
gassate e vi potevano rimanere anche per giorni senza ricevere cibo
perchè tanto erano destinate alla morte (perchè sprecare risorse?)
sole, disperate, dimenticate. Posso sentire il silenzio sinistro
dello Zigeunerlager, la zona dove c'erano le baracche degli zingari,
un campo rumoroso, addirittura vitale, dove i detenuti potevano
suonare i loro strumenti, pieno di bambini che nonostante tutto
giocavano e facevano chiasso: in una sola notte di agosto i nazisti
lo “evacuarono”, gassarono 2897 prigionieri. La metà erano quei
bambini. La mattina dopo nel campo non si sentiva più un fiato, solo
le porte delle baracche che sbattevano nella desolazione. Posso
ritrovarmi davanti alla discesa per le camere a gas, ormai
smantellate ma non meno inquietanti, i crematori ridotti a cumuli di
mattoni rossi, immaginarmi migliaia di persone stipate in quel lungo
corridoio costrette a denudarsi davanti a estranei con la subdola
promessa che avrebbero ritrovato i loro indumenti dopo la doccia
(“per non perdere le scarpe, prego annodarle tra loro”) e poi
stipate nella camera a gas dove granelli di Zyklon B le avrebbero
uccise per soffocamento interno – a volte ci volevano anche
quindici minuti, una morte dolorosissima, per nulla un andarsene nel
sonno come si può pensare da casa). Posso vedere le madri morire
schiacciate dal groviglio dei corpi tenendo in alto sulle loro teste
i propri figli nella speranza assurda di un po' di ossigeno. Posso
vedere cos'era il Canada (la zona della ricchezza, grande umorismo
nazista) dove venivano depositati i beni strappati ai gassati che
erano partiti portandosi dietro con ingenuità piatti, utensili e
padelle, oggetti utili per il trasloco pensando davvero che avrebbero
trovato un campo di lavoro, i laghetti dove venivano buttate le
ceneri, molto utili tra l'altro anche a nutrire i pesci, a fermentare
i campi o buttate sulle neve per non far scivolare i camion. Posso
vedere i detenuti fatti spogliare nella foresta di betulle (Birkenau
vuol dire bosco delle betulle) e fatti correre direttamente nudi alle
camere a gas nonostante il gelo oppure fucilati e bruciati su
cataste, posso vedere dove venivano tosati con forbici da animali
davanti al ghigno dei soldati, tatuati con un numero che sarebbe
diventato il loro nome e esposti a docce o freddissime o caldissime
per puro divertimento. Ad Auschwitz 1, quello con la storica scritta
Arbeit macht frei che nel 2009 qualche sciacallo in cerca di cimeli
aveva rubato (adesso è esposta una copia) si entra ed esce dai
blocchi, le baracche, dove Benigni ha girato La vita è bella e in
ogni angolo ancora io posso vedere. La baracca 21, l'infermeria dove
i detenuti venivano uccisi con iniezioni di fenolo nel cuore e le
donne sottoposte a esperimenti sulla sterilità da noti ginecologi.
Ecco l'angolo della forca dove la nostra guida di oggi, stavolta
polacca, tende a sottolineare che furono impiccati molti connazionali
(è molto importante per i polacchi sottolineare la loro parte in
causa come vittime, fino all'eccesso comico involontario a volte:
vuoi vedere che erano loro i migliori amici degli ebrei? Eppure a
Cracovia adesso di ebrei ce ne sono solo centocinquanta, se non si
vogliono contare le caricature antisemite in legno che si trovano
abbondantemente nel mercatino di attrazioni turistiche) e dove il più
giovane un ragazzino di sedici anni riuscì a scalciare lo sgabello
da sotto i piedi da solo, ribellandosi almeno con questo gesto ai
suoi carnefici. Posso vedere il muro delle fucilazioni dove i
prigionieri venivano appesi a un gancio finchè gli arti non cedevano
e poi naturalmente fucilati in massa davanti a pareti antiproiettile
che dovevano anche attutire il rumore dei colpi per non spaventare
gli altri e far degenerare il panico. E poi naturalmente posso vedere
l'orrore puro: le due tonnellate di capelli (e sono solo una parte)
usate per fare calzini per le truppe, i chili di pelle umana usata
per realizzare cartoline di auguri, le protesi, gli occhiali, le
scarpe scompagnate, migliaia di scarpe, le valigie con i nomi scritti
sopra. Ecco, adesso posso vedere tutto quello che mi ha terrorizzato
fin da piccola. Non è più una mia fantasia solitaria. Lo vediamo
tutti. Io insieme ai quasi seicento studenti della Regione Toscana
che sono venuti con noi e che hanno dato a questo viaggio un
ulteriore senso e anche una speranza. L'orrore sta lì davanti a noi,
dentro di noi, quel noi collettivo su cui deve basarsi la memoria. Ma
perchè la memoria non resti, come scrive l'autore teatrale che
prediligo, George Tabori, un grande mare ghiacciato, una lastra
spessa tra noi e la verità è necessario a volte affondarvi un colpo
d'ascia che rompa la superficie indurita, che faccia rifluire la
vita, anche se il calore può essere dolorosissimo, come
probabilmente è stato per Andra Bucci tornare su quel treno su cui
fu costretta a montare da bambina. E' necessaria l'epifania dolorosa.
E' necessario che ce la prendiamo su di noi, la memoria, che la
facciamo diventare parte dei nostri corpi, fisica, concreta, che
offriamo i nostri occhi, che diventiamo noi i prossimi testimoni,
visto che quelli storici ci stanno abbandonando. Per essere i nuovi
testimoni è necessaria preparazione storica e tanta immaginazione –
come disse una sopravvissuta a Freddie Rokem studioso israeliano del
teatro della Shoah che le chiedeva come avrebbe potuto parlare dei
campi, lui, senza esserci stato : “Usi tanta immaginazione, caro”
gli rispose lei, soave. Immaginazione per entrare in quei disegni,
coraggio per affrontare il fango viscido e schifoso e forza per
tornare indietro. Anche se duro, anche se difficile, io consiglio
questo viaggio a Auschwitz. Consiglio di diventare quegli occhi, di
prendere questo treno.
©Laura Forti
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