«Non c'è nulla di sorprendente come la vita. Tranne lo scrivere.» (Ibn Zerhani)

«La lettura rende un uomo completo, la conversazione lo rende agile di spirito e la scrittura lo rende esatto.» (Francis Bacon)

«Si legge quello che piace leggere, ma non si scrive quello che si vorrebbe scrivere, bensì quello che si è capaci di scrivere.» (Jorge Luis Borges)

giovedì 25 febbraio 2016

"La crisi dell’editoria" di David Pacifici









La crisi dell’editoria è principalmente una crisi di identità dell’editoria stessa. Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito ad una trasformazione genetica del settore un cambiamento che direi irreversibile. Le cause sono in parte imputabili a fattori esogeni che riguardano principalmente l’arrivo del web. Dobbiamo però constatare che all’arrivo dello tzunami internet, l’editoria era già minata al suo interno.

Tra le cause interne che hanno portato allo sgangheramento del mondo editoriale annovererei:

1) Concentrazione dei gruppi editoriali e integrazione indiscriminata a monte e a valle, con la creazione di veri e propri moloch, ingestibili sia da un punto di vista organizzativo che finanziario con diseconomie di scala crescenti. Nelle ultime due decadi abbiamo assistito a una crescita senza ostacoli delle maggiori case editrici che hanno via via inglobato al loro interno stamperie, società di distribuzione, catene di librerie e altri marchi editoriali. Modificando il mercato da concorrenziale a oligopolistico, e quindi creando situazioni di squilibrio e rafforzando posizioni sul mercato, schiacciando la piccola editoria e la pluralità di espressione. Il rovescio della medaglia è stato la disorganizzazione imperante e la perdita di efficienza nelle decisioni strategiche sia editoriali che commerciali e logistiche che si sono fatte sentire in periodo di contrazione dei mercati.

2) Scomparsa all’interno delle case editrici di intellettuali e comitati scientifici. Nei gruppi editoriali le figure pensanti danno fastidio perchè intralciano le decisioni gerarchiche. Nelle ultime due decadi gli intellettuali che rappresentavano l'anima dei vari progetti editoriali sono stati progressivamente eliminati. Non per niente abbiamo assistito a una omologazione dei prodotti editoriali e delle collane.

3) Passaggio generazionale delle classe imprenditoriale e a cascata del management . Al posto dei vecchi editori si sono succeduti i figli dei figli, in genere non all’altezza della generazione precedente.

4) Management cooptato da altri settori non in grado di capire le peculiarità di un settore così particolare delicato come quello editoriale.

5) Mancanza o quasi di scouting e di investimento sull’autorialità. Da anni le case editrici preferiscono rivolgersi all'acquisto di best seller esteri. Si è creduto ingenuamente di sfruttare gli investimenti del marketing dei partner esteri creando così una situazione di impoverimento nei propri cataloghi.

6) Politiche commerciali tutte orientate al saturation-cell: il marketing principale è stato quello di occupare senza ritegno scaffali in libreria attraverso politiche aggressive di sovrasconti e tredicesime (1 copia omaggio ogni 12 libri) indipendentemente dalla vera qualità dei prodotti editoriali.

7) Il gioco perverso della resa incondizionata che ha gonfiato fatturati e logiche di produzioni spostando l’asse verso una logica finanziaria e non economica. La caratteristica del mercato editoriale è la possibilità da parte del libraio di rendere il libro quando vuole senza scadenza. La vendita al libraio viene definita tecnicamente sell-in, la vendita all'acquirente invece è chiamata tecnicamente sell-out. I fatturati delle case editrici sono sui sell-in, quindi delle cambiali a scadenza. Inoltre per i grandi gruppi editoriali e per le società di distribuzione la movimentazione di grosse somme di denaro ha rappresentato una risorsa finanziaria non indifferente.




Davanti ad una situazioni di questo tipo dove il mercato editoriale è cresciuto senza una vera base aziendale e culturale sulla quale poggiare, l’arrivo del web ha avuto gioco facile.
Adesso assistiamo a editori che pateticamente piagnucolano cercando di elemosinare qualche spicciolo inventandosi grottesche campagne di promozione libro che lasciano il tempo che trovano.
Anche i best sellers degli ultimi anni sono stati casuali e non gestiti dalle case editrici stesse incapaci di capitalizzare il successo.
Direi che a parte qualche raro caso, dove c'è stata logica editoriale intelligente e lungimirante, il resto dell’editoria ha scordato la sua vera funzione e missione, pagando a caro prezzo la stoltezza delle scelte.


©David Pacifici





David Pacifici, ha lavorato per 15 anni in varie case editrici ricoprendo mansioni commerciali e editoriali. Attualmente si occupa di comunicazione sul web.



"Spicchio d'aglio" / primo studio

Cari amici di Daimon, vorrei presentarvi la mia nuova produzione drammaturgica, dedicata alla guerra fascista d’Africa; si tratta di un primo studio, volto a generare una riflessione e un confronto su tematiche a mio avviso importanti..
Da tempo lavoro sulle responsabilità italiane durante il fascismo. Ho scritto e portato in scena spettacoli sulla lotta partigiana e una trilogia dedicata alla persecuzione e discriminazione degli ebrei, con particolare riferimento all’applicazione italiana delle leggi razziali e al campo di concentramento di Fossoli. Adesso mi sembrava giusto dedicarmi alle guerre coloniali e soprattutto alle vittime di questi conflitti che non furono affatto brevi e semplici, come Mussolini aveva affermato. Gas, armi chimiche, fucilazioni, deportazioni e ogni genere di sopruso hanno caratterizzato il corso di questa occupazione aggressiva. 
E’ nostro dovere elaborare questa memoria insieme al pubblico per cercare di capire e analizzare le radici di quell’odio, di quel profondo razzismo che, non affrontato, rischia di invadere anche il nostro presente e di coprire il passato con un silenzio pericoloso, come è successo in tutti questi anni. 
Questo spettacolo è naturalmente un piccolo contributo ma ci credo molto: credo al dibattito, alla discussione, all’informazione.Ve lo presento qui, su Daimon.
Chi è interessato mi può contattare a: mail@lauraforti.it

SPICCHIO D'AGLIO/primo studio
(La guerra fascista d'Africa in quattro tempi)


un progetto di Laura Forti 
con Laura Forti
drammaturgia di Laura Forti 
regia, musiche e video di Teo Paoli



2 ottobre 1935 Mussolini annuncia l'entrata in guerra con l'Etiopia.
L'Italia, già impegnata in passato nella conquista coloniale, adesso sogna il suo impero. Il conflitto dovrà essere breve, rapido, vittorioso; in realtà sarà tutt'altro che indolore e costerà molte spese, moltissime morti e, da parte africana, si risolverà in un vero e proprio genocidio della popolazione locale, deportata, sottoposta a fucilazioni sommarie e privata dei diritti basilari, annientata con i gas e le armi chimiche. Ma l'oltremare non è solo il sogno di conquista dei soldati; anche i civili cadono nel miraggio di accumulare ricchezze in colonia, spinti dall'avidità o costretti all'espatrio per fuggire un destino di fame e miseria.Uno spettacolo per raccontare quel periodo complesso, intrecciando voci e storie: da una parte una famiglia fascista, i Tamietti, nella quale i componenti maschi sperimentano tutti, seppur in modo
diverso, la guerra - intesa come banco di prova della virilità e autoaffermazione di un potere personale vacillante;dall'altra il bracciante Tano, strappato alla sua Maria e alla sua Sicilia, che per un attimo sembra entrare in una storia più grande, quella dell'Impero fascista, per poi venire schiacciato dai meccanismi dello sfruttamento e dei pregiudizi sociali.E poi il fantasma di una donna libica, Spicchio d'aglio, la schiava-bambina che il capofamiglia Alfio ha sedotto durante la sua permanenza in Africa durante le prime guerre dell'Italia liberale, che attraversa epoche e trame e finisce per ricongiungere i destini di tutti in un amaro finale.Per la prima volta nel 1996 l'allora Ministro alla Difesa Domenico Corcione ha ammesso, in un breve comunicato di tre righe, le responsabilità italiane e l'uso di armi chimiche vietate.Uno spettacolo per riflettere insieme su una memoria che per anni è stata rimossa e solo recentemente, grazie soprattutto agli studi di Angelo Del Boca, ha cominciato a essere ricordata e analizzata. Noi, nel nostro piccolo, ci proviamo.
CENTRALE dell’ARTE – via della Vigna Nuova 4 – 50123 FIRENZE mail@lauraforti.it - info@centraledellarte.it







lunedì 22 febbraio 2016

Daimon consiglia di leggere: "Ancóra" di Hakan Gunday



 “Descrivere è il miglior mezzo per pensare e da quindici anni provo a scrivere di tutto ciò che c'è di scioccante e che non capisco”. Anche in questo secondo romanzo Ancóra, Hakan Gunday racconta le contraddizioni del suo paese. la Turchia, dilaniata tra identità occidentale e orientale (è una donna anoressica se guarda dalla parte dell'occidente e obesa se guarda a est, dice Gunday), scissa tra valori tradizionali e ingiustizie, ma anche quelle dell'essere umano oggi, nella nostra società contemporanea dove il male prende forme sempre diverse e la violenza corrompe l''anima di tutti gli individui che devono a un certo punto porsi davanti a una scelta, davanti al precipizio della coscienza. Ancora una volta, come in A con Zeta, Gunday parte dall'infanzia e racconta la perdita dell'innocenza. Stavolta il protagonista è Gaza, figlio di un mercante di uomini, un trafficante di clandestini. Gaza non si limita ad aiutare il padre nei suoi traffici, diventa un vero e proprio tiranno: uccide un uomo lasciandolo soffocare semplicemente perchè si dimentica di accendere l'impianto di ventilazione nel luogo angusto dove questo è rinchiuso, studia come un antropologo i comportamenti delle persone costrette a convivere nella cisterna prima di venire imbarcati, quelle persone che lanciano il loro grido daha, ancora, unica parola turca che conoscono, che nel romanzo assume valenze diverse – ancora acqua ma anche ancora un qualcosa che le completi, ancora vita, ancora speranza; Gaza si adegua al ruolo che la società gli ha cucito addosso, si diverte a provocare risse, stupra e uccide, diventa un piccolo mostro, un manipolatore, un cinico, si sente vivo e legittimato solo in situazioni di violenza tanto che si mette a cercarle, partecipando a linciaggi, a uccisioni, a ingiustizie di ogni tipo. Ma una parte di umanità suo malgrado sopravvive, e prende la voce interiore dell'uomo che ha ucciso, Cuma, l'unico a fargli un regalo, un piccolo origami, una rana di carta. Tenendo stretto il suo talismano, Gaza dovrà confrontarsi con quella parte, seguirla, fino forse a una rinascita. Il libro è duro, estremo, bellissimo, un cazzotto nello stomaco che non si dimentica. Una volta chiuso restiamo a farci delle domande, ci restano davanti agli occhi i bambini di Hakan Ginday, ci chiediamo se riusciranno a superare i condizionamenti sociali che li vogliono far diventare dei criminali o ce la faranno a mantenere un'umanità, una libertà, a costruirsi un'identità indipendente; lo stesso si potrebbe dire della Turchia, che con il dramma dei migranti sembra non uscire da una spirale di violenza, chiusa nella sua cisterna di cemento, dove la realtà purtroppo ogni giorno supera tristemente perfino la fantasia di questo scrittore dotato.  


©Laura Forti

Ancóra 

di Hakan Günday (Autore), F. Bertuccelli 

Marcos y Marcos Editore



domenica 21 febbraio 2016

Ciao zio!


Di Umberto Eco, fuori dalle fanfare di elogi al genio rinascimental-contemporaneo, dall'affannarsi a tirar fuori selfie con l'illustre o scribacchiare acidità contrarie, io, non ho niente da dire, molto da custodire.
Per me è come quello zio simpatico e bizzarro del film "Fanny e Alexander", quello che manda in visibilio i bambini, emettendo fiammate scorreggiando su una candela. Non sembri irrispettoso, ma zio Umberto, ci ha mandati in visibilio con qualunque cosa di suo abbia spruzzato sul fuoco. Magari con i saggi di semiotica un po' di palle ce le ha fatte, ma ci siamo beccati un 30 all'esame. E tra bustine di Minerva, romanzi, articoli, interviste e quant'altro, era sempre quello che ci dava sprazzi di brillante intelligenza, in questo nostro italico mondo che invece è diventato il crogiolo delle mediocrità.

Lui, che amava leggere in bagno (cfr. famosa bustina), si aggirava felice, come un topo nel formaggio, a casa sua tra cunicoli di libri che manco il protagonista di Auto da fé di Canetti (che invece era un intellettuale sfigato), amava mangiare, bere, fumare e alla fine della cena improvvisava concertini di flauto barocco (sempre in bagno). Lui che infine, c'ha dimostrato quanto bello, ottimista, importante, acuto, rompiballe contro l'ovvietà, possa essere il ruolo dell'intellettuale. Prosit!



venerdì 19 febbraio 2016

Se il poeta si nasconde su Facebook


Una domanda, così, a bruciapelo? Si legge ancora poesia in Italia? Se proviamo a chiedere a qualcuno, magari anche con una buona cultura, di citare un autore italiano contemporaneo, preferibilmente vivente, ci saprebbe dare una risposta? Probabilmente no. In Italia si vendono e si pubblicano pochi libri di poesia – che perlaltro non ha mai venduto molto. Eppure c'è stato un periodo in cui poeti come Giovanni Raboni, Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni hanno ricoperto ruoli importanti e di forza nell'industria culturale italiana. Poi il vuoto, o meglio la poesia si è ripiegata sull'autoreferenzialità dei recitals per addetti ai lavori, un po' tristi e "morettiani", solitari e anacronistici. Peccato perchè quello poetico è un grande laboratorio linguistico e immaginativo, un luogo aperto alla sperimentazione. Il web in alcuni casi si è rivelato un valido alleato: sono nati i blog, i siti personali, le autopubblicazioni su internet. Un fenomeno interessante che riporta la poesia alla portata di tutti ma che rischia di abbassare la qualità della proposta: tutti possono improvvisarsi poeti e il web finisce per diventare una vetrina narcisistica, uno sfogo privato, un coacervo di megalomania. Ci sono però delle eccezioni e a volte si possono incontrare delle vere e proprie gemme, degli artisti scampati al naufragio culturale che ci circonda che resistono, a modo loro, sulle loro isole online. E' il caso di Riccardo Boccacci, poeta con un passato illustre (che lui per modestia tende a minimizzare), che ha collaborato in passato con prestigiose riviste letterarie come “Salvo imprevisti” e “L'area di Broca” di Mariella Bettarini e che adesso, come dice lui, si è “ritirato dalle scene”. Se tutti vogliono apparire su internet, ansiosi di autocelebrarsi, Riccardo al contrario vi si nasconde (“Vivo rincantucciato/Come non fossi nato”) e lo usa semmai come finestra da cui affacciarsi, da cui lanciare stimoli e provocazioni. Stanco dei recitals, degli intellettuali, dell'autoreferenzialità dei circoli letterari, refrattario a etichette e definizioni, dotato di una feroce ironia che rivolge in primo luogo verso sé stesso, Riccardo scrive “poesie non finite” , sbocconcellando sillabe e emozioni e le abbandona, anzi le regala sul suo diario facebook o nei blog altrui; non ha un blog personale perchè lo riterrebbe una chiusura claustrofobica e detesta annoverarsi tra “i poeti laureati onore e consolazione della nazione”, si definisce, da buon figlio di madre ebrea, un “poeta errante”, in questo caso un vagabondo su internet. Gli abbiamo chiesto di presentarsi e lui ci ha scritto una divertente autobiografia corredata da tre sue poesie. E' davvero un peccato non poterne leggere di più. Ma di tornare a pubblicare, Riccardo non ne vuole sapere (se però siete curiosi, potete cercare il suo "Persona" nel cartaceo, edizioni del Gazebo http://www.edizionigazebo.it/catalogo.htm). 
Non resta che seguirlo sul suo facebook o sperare di veder riaffiorare qualcuno dei suoi versi sopravvissuti al naufragio tra le onde del mare poetico di internet. 

 “Riccardo Boccacci nasce a Fi/renzi il 24 11 1952. Già a otto anni scrive poesie ad imitazione degli Spagnoli Machado e Lorca... poi ha un blocco totale della scrittura fino ai 20 anni... in seguito alla estromissione da un concorso di poesia al liceo classico... vinto da una sua amante... evento che lo segnerà per sempre sia a livello scrittoriale che sentimentale. Lettore omnivoro... già a 14 anni si era divorato Joice, Kafka e la Recherche...al liceo classico comincia a leggere le novità editoriali degli Oscar Mondadori...che per prima portò in Italia Hemingway, Faulkner e gli americani, senza disdegnare però la fumettistica erotica di quegli anni... Zora la Vampira... Isabella... e la preferita Lucifera. Nei primi anni 80 fa un Auto da fè...della sua biblioteca di più di 2500 volumi. Entra giovanissimo a fare parte della rivista di Letteratura Salvo Imprevisti...diretta da Mariella Bettarini, rivista che a detta della critica è l'erede ufficiale di Politecnico ed Officina..A Salvo Imprevisti. partecipano come ospiti... fra gli altri... Pasolini Fortini Roversi Scalia. Sempre in quegli anni fa recitals di poesia itineranti in tutta Italia... è a Cuneo invitato da Roberto Musspai... fa recitals in Piazza di Spagna insieme a Milo de Angelis... Valentino Zeichen Magrelli... la Maraini... e la divina Vivian Lamarque tutti diventati poi poeti laureati, onore e consolazione della nazione... è spesso alla libreria Palmaverde a Bologna di Roberto Roversi... e si esibisce nelle case del popolo dell'Emilia e Romagna...sorbendosi dibattiti noiosissimi sulla poesia 'Operaia'... è invitato spesso al Beat 72 a Roma dove ammira le tette di una giovanissima Kunstermann... esce nell 84 dalla redazione della rivista L'aria di Broca...che nel frattempo aveva soppiantato 'Salvo Imprevisti'... Fa perdere le tracce fino alla pubblicazione di un libro di poesia nelle edizioni Gazebo dal titolo 'Persona'... rifiuta dopo la pubblicazione di partecipare a premi letterari... riviste... rispondere alle lettere dei poeti e critici a cui la casa editrice aveva mandato il libro... il suo motto preferito è' Vivo rincantucciato/come non fossi nato'... Improvvisamente sei anni fa... riappare come scrittore nel WEB... numerosi interventi circa 500 sul Blog di Aldo Ricci... e migliaia sulla sua pagina personale di Facebook... dove scrive il romanzo sempre in fieri 'Fregne assassine'... famose le sue rubriche 'E' Tardi si fa sera lezioni di poe(z)ia...' Sporcare le proprie poesie con un Twitt'... 'Ridurre le proprie poesie in un twitt'... dove proprio come lo scultore Giacometti che immaginava le statue grandi e poi gli si rimpicciolivano fra le mani... delle poesie scrive solo gli inizi o i finali... Brevi gemiti...mormorii... risatine... che attraversano... questo al di qua molto sospetto... Convinto che i poeti sono come stupide scimmie scopiazzanti che si assomigliano tutti... li invita ripetutamente a riposarsi chiudere libri e quaderni..lui stesso saccheggia libretti di opera... offre su Facebook grandi pagine di critica... dove stronca quelle che lui definisce le poetesse lesse baroccheggianti burrose in gelatina... epigone... della a dir suo... non poetessa... pluriacclamata sulle pagine Facebookkine... Alda Merini... che affettuosamente chiama Merinos BEHHH BEHHH!! Stronca ripetutamente anche un'altra delle poetesse acclamate nel web... la Valduga... di cui dice 'Ogni verso una buca'... Inventa nelle sue prose uno stile che postumo è convinto avrà enorme successo... lo stile 'Il senile'... da lui definito 'Il bello scrivere'... in contrapposizione al dilagante 'Bariccoso' e al 'Fabiovolatile'... lo stile 'Il senile' a volte si confonde nei momenti di più forti attacchi di bip-bip polare con lo stile 'Alzheimeroso'... L'insuccesso gli da completamente alla testa... quando la ragazza a cui aveva commissionato l'editing dei suoi scritti sparsi in ogni dove... scappa con l'anticipo di 200 euro... Si considera un poeta in cassa integrazione... la critica unanime lo riconosce come il migliore poeta abortito della sua generazione... 

Ci autorizza a pubblicare tre poe(z)ie stranamente intere... 


Il sole si è trasformato
in luna,poi nella stanza lampada.
Covo addii. Adesso è l'ora
che maligna ghermisce,
chi di qua resta bestia.
Veloce la vita un soffio,
l'uomo, materia che sogna.



la dualità va superata
questo l’ho capito
ma mantenersi saldi in questa 
posizione senza timore e apprensioni
questo è più difficile da farsi 
includere la morte
è includere la vita tutta intera
senza esclusioni, senza confronti.
...............................
Le cose non svaniscono
vengono solo meno
come il sole sbiadisce
dalla carne
come la schiuma esala
dalla sabbia.


Anche l'amore non ha
un tuonante epilogo,
muore con un suono


di fiori appassiti
come fa la carne
sotto la pietra pomice sudante.


Tutto concorre ad avere
questa forma,finchè
non rimaniamo soli
nel silenzio


(Riccardo Boccacci)



domenica 14 febbraio 2016

Uno strambo Don Giovanni della lettura



Diciamo la verità, ognuno di noi mente, almeno un po', almeno qualche volta, per non sembrare da meno, per darsi un tono, perché, insomma, tutti lo fanno e perché dovrei essere io il primo a non farlo?
Ci sono libri che fingiamo d'aver letto. Tipo l'Ulysse di Joyce, sul quale è facile mentire, è la cronaca di una giornata inconcludente di Mr Bloom e alla fine c'è un pezzo che chiamano il monologo di Molly Bloom (che in poche pagine ti da il succo di tutto e al massimo leggi l'incipit e sto pezzo qua – perché ci stia anche Stephen Dedalus, lo sanno solo i professori universitari di una certa età). Si mente bene: il flusso di coscienza, lo stile, la ricerca linguistica che inventa e complica e bla bla bla, voilà. Pare che l'hai letto tutto.
Con l'altra montagna di menzogna che è “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust, le cose non sono così semplici, ma nemmeno impossibili. Certo, sono sette libri, ma come te che non li hai letti per intero, molti altri, e quei pochi che invece l'hanno fatto, non è che possano ricordarsi tutto, eh. Una chiacchiera sull'atmosfera, sui personaggi che girandolano tra i libri tra salotti e amorazzi franciosi, una stoccatina alle promiscuità dell'autore che magheggia sul sesso dei personaggi, ed è fatta. La stragrande maggioranza ce la fa. La stragrande maggioranza si è addormentata a pagina tre del primo libro, mentre il protagonista ci racconta come da bambino stentasse ad addormentarsi, pagine di sublime xanax.
E poi chiedere le madeleines col the, al bistrot, insieme a qualcuno su cui vuoi fare buona impressione, crea quel tanto di charme che basta e avanza, ma è raro, le occasioni così raffinate sono ormai molto quasi estinte, più facile farsi un tramezzino o un supplì in coppia, al massimo una cenetta "Ar Bucatino", stronca qualunque resistenza al libero rilascio di libido.
Beckett è perfetto invece, facile facile. I suoi romanzi sono peggio dell'Ulisse di Joyce, come se il buon Samuel, che per un po' gli fece da segretario, avesse raccattato pezzetti di scarto senza capo né coda e li avesse poi riattaccati a casaccio, messo un titolo (che di solito è un nome) e pubblicati. Quelli che li hanno letti per intero sono estinti. Beckett non crea problemi, appena lo citano si esclama: “Ah, beh, sì, “Aspettando Godot!”, e ciccia, scappa sempre una risatina collettiva, per passare rapidamente ad altro.
Potrei fare altri esempi, ma non voglio dilungarmi, ci siamo capiti. Siamo tutti complici.

Questo lo sappiamo e lo facciamo tutti.

Io però qui, vorrei dire soprattutto di un'altra cosa. Che a me capita, ma non so se realmente capiti a molti altri o no, forse sì. Mi conforterebbe.
Non riuscire a finire di leggere un libro.
Ma come? È la cosa più facile. Se non ti piace, smetti di leggerlo.
No, non è questo che intendevo.

Io volevo dire che quando un libro mi piace tantissimo, ma proprio così tanto che, per non uscirne fuori, smetto di leggerlo, lo lascio in sospeso. Ogni tanto lo riprendo, vado avanti di poco, rileggo quello che ho già letto.
Posi, prendi, ti ci perdi, e poi per il panico che ti prende mentre ti accorgi che le pagine diminuiscono, lo metti via. Smetti di leggerlo. Lo lasci in evidenza, ma non lo leggi più, per settimane, mesi, anni. Con qualche ritorno, in cui rileggi, ci sprofondi e poi lo molli ancora, perché non vuoi che sia lui a mollare te, come in una di quelle storie d'amore assurde che finiscono perché uno lascia l'altro perché ha paura d'essere lasciato. Nella vita capita. Nella lettura, anche. Almeno a me capita. Però, in genere, agli altri sento dire, a proposito di un libro che stanno leggendo: “Non vedo l'ora di finirlo”, oppure hanno finito di leggerlo d'un fiato e: “Ci sono rimasto male quando l'ho finito. Avrei voluto che non finisse mai.” - che mi pare assurdo.
Perciò sto zitto e penso che io invece faccio in un altro modo; quando lo faccio per me è come un colpo di fulmine, il libro mi prende talmente tanto che non posso finirlo, non voglio che termini mai e perché questo avvenga, devo smettere. Sono le mie folli passioni tenute in vita come uno strambo Don Giovanni della lettura che abbandona tutte le proprie amanti per tener vivo ciò che morirebbe, e lascia che tutto canti e risuoni, ma resti sospeso per sempre, al riparo dalla fine, che sempre appartiene ad ogni cosa, alla vita, all'amore, nella realtà ma che alle vite e agli amori che i libri mi accendono, tento, con disperata passione, di evitare.

Nel tempo, però, naturalmente, non ho resistito con tutti, arriva un momento nel quale, come in una coppia di vecchi amanti, bisogna giungere alla fine e terminare, L'ho fatto, ma devo confessare con una serenità e con un appagamento, dati dalla consuetudine che nel palazzo della mia memoria e dei miei affetti si sviluppa grazie alla sospensione temporale, per cui ogni libro si è concluso senza quel trauma che, se l'avessi finito subito, avrei avuto.

Non sono molti ovviamente, le grandi vere passioni, non possono essere dissipate nella quantità. Ma ci sono e non so di qualcun altro che lo faccia.
Al momento, per dirne solo due, c'è la storia di un ingenere che vive in tempo di pace e quella di un pittore che ha dipinto un quadro davanti al quale immancabilmente piango che non posso veder morire, che non posso finire di leggere, perché in quelle storia ancora voglio restarci, quelle storie che la carta stampata delimita in pagine, ma la mia fantasia e le mie emozioni, no. Cos'altro potrei fare?

Leggere, per cercare qualcosa di talmente bello, da doversi fermare, perché non smetta mai di scuotere la smania di esistere, oltre la vita, le pagine, sé stessi.



©francescorandazzo








sabato 13 febbraio 2016

Scrivere fa bene alla salute (Huffington Post)



Da un articolo su Huffington Post
La scrittura ha molti vantaggi che vanno ben oltre il semplice arricchimento del nostro vocabolario. Non importa quale sia la qualità della prosa, è l'atto stesso dell'impugnare in mano una penna a portare benefici sia per la salute fisica sia per quella mentale. L'umore, i livelli di stress, i sintomi depressivi sono solo alcuni degli aspetti a risentirne positivamente.
In uno studio del 2005 sui benefici per la salute emotiva e fisica della scrittura espressiva, i ricercatori hanno scoperto che buttare già qualche riga dalle tre alle 5 volte nel corso dei 4 mesi di ricerca, spendendo ogni volta dai 15 ai 20 minuti, aveva fatto la differenza nel migliorare la vita delle persone analizzate.

Dáimōn, infatti è un diavoletto benefico, che può aiutarvi a star bene 
e far tesoro, attraverso la scrittura delle vostre storie, delle vostre emozioni; 
lo facciamo con cura, rispetto e professionalità, 
come buoni compagni di strada.

venerdì 12 febbraio 2016

Laura Forti su RSI: "La Guerra d'Etiopia" di Nicola Labanca


Il 2015 l'Italia ha mancato un anniversario importante: quello che ricorda l'inizio della guerra in Etiopia, il 3 ottobre 1935. Ovviamente l'anniversario avrebbe ricordato l'altra faccia del colonialismo italiano: non gli italiani brava gente, non lo spirito missionario e paternalistico che portò soldati e civili a conquistare i paesi africani, ma l'incredibile violenza, la guerra sanguinaria che non risparmiò nessuno, donne, uomini e bambini, spesso uccisi con gas e armi chimiche, fucilati sul posto o rinchiusi nei campi di concentramento, quello che anche gli storici più cauti non possono che definire un autentico genocidio. L'Italia fino agli anni 80 non ha voluto sapere; è grazie a libri come questo, "La guerra di Etiopia" scritto da Nicola Labanca, che si può tenere viva la memoria, rompere il silenzio e continuare a interrogarsi sui fatti, cercando di creare una coscienza italiana sul suo passato coloniale.

© Laura Forti


Un importante saggio di Nicola Labanca per ricordare uno dei capitoli oscuri della storia italiana e ricostruire, alla luce della storia, una memoria dolorosa ancora rimossa. Laura Forti ci presenta "La guerra d'Etiopia".

Ascolta la recensione del libro su Radio Rsi, cliccando qui.



domenica 7 febbraio 2016

Grappa di Dostoevskij




Chi non ricorda quelle mensole nei salottini di quarant'anni fa, con quei libri dalla costola marrone e i caratteri dorati, che davano un tono serio e il sentore di letture praticate con solerzia da casalinghe, operai, impiegati, segretarie, studenti? Chi non li ricorda è molto giovane, ma forse li avrà intravisti in qualche vecchio tinello di famiglia. Erano gli anni sessanta e settanta, quei libri erano le raccolte di “Selezione dal Readers Digest”, formula editoriale d'importazione americana (lì dagli anni quaranta). In Italia dal 1959, nel periodo, quindi, in cui la televisione cominciava ad acculturare il pubblico da Nord a Sud, e a rendere l'italiano una lingua finalmente parlata da tutti o quasi, quei libretti diffondevano in modo semplice e accattivante, stralci di letteratura, germi di curiosità, aiutavano ad una alfabetizzazione culturale che, pur nel suo semplicistico porgersi, dava tenerezza e aveva un senso proprio per la popolarità che aveva. Altro merito erano le offerte di abbonamenti a prezzi accessibili, e il giradischi stereo a prezzo stracciato, anche a rate, che ti inviavano a casa insieme a 10 dischi a 33 giri di musica classica. Generazioni di italiani, compreso me, hanno cominciato così, spulciavo le raccolte di mia madre; dopo un po' non mi bastarono e passai decisamente ai libri in edizione originale. Molti sono passati a leggere i libri per intero, ad ascoltare musica (non solo canzonette) come abitudine consolidata. Erano i tempi in cui tutti i padri e le madri ambivano che i figli si diplomassero e persino si laureassero, diventando migliori, emancipandosi con un salto di qualità culturale e professionale che avrebbe dato senso e gioia alle vite di duro lavoro che avevano vissuto i genitori. Si riempivano gli scaffali del soggiorno, con "Selezione", con le enciclopedie per i figli, anche queste comprate a rate, messe in bella mostra a dire “qui si studia”, “qui vogliamo migliorare”. Molti di quei figli infatti hanno studiato, si sono diplomati, si sono laureati, hanno compiuto il salto sociale, sono diventati quel che nella stragrande maggioranza i loro genitori non avevano potuto essere.
Da qui, lentamente, con una auspicabile consequenzialità, ci si sarebbe aspettato che la lettura, insieme allo studio e anche dopo il corso scolastico, crescesse come abitudine, sempre più diffusa e consolidata.
Non è successo.
La televisione da scuola d'intrattenimento ed educazione popolare, è diventata sempre più luogo di commercio e smercio per contenuti sempre più vuoti ma accattivanti, facili, populistici, dilavatori di cervelli e coscienze. I figli laureati hanno avuto altri figli, meno laureati, spinti più che all'educazione, più che alla cultura come mezzo di crescita e arricchimento personale, al far qualcosa che portasse soldi, sempre più soldi. E in un paese nel quale, comunque da sempre “la raccomandazione” è valsa carriere altrimenti impossibili, quei genitori, consapevolmente o meno, attraverso la loro delusione, hanno ammesso a se stessi che forse era meglio che i figli imparassero a sfangarsela con un accurato marketing d'immagine e non per quel che realmente erano, o sarebbero potuti diventare. I reality show hanno dimostrato che non saper far niente può renderti famoso e ricco; internet (che pure è un mezzo straordinario) è diventato l'alibi per non sapere nulla e credere a tutto, senza nessuna verifica critica, perché tanto serve a niente ed è più vero un fake condiviso un milione di volte che una verità con poco appeal e nessuna risonanza mediatica.
Siamo arrivati, dunque, dopo tre generazioni, al paradosso, di quello che viene chiamato “analfabetismo di ritorno”. A parte l'altissimo numero di abbandono degli studi universitari, quelli che ce l'hanno fatta, praticamente non leggono quasi più, non studiano, non si aggiornano, e dopo anni di abbandono, praticamente non sanno quasi più né leggere, né scrivere.
Gli indici nazionali di lettura sono bassissimi. Dai sondaggi le risposte di spiegazione da parte dei non lettori sono grosso modo, principalmente due: - non mi serve/non serve a niente/non mi seve più – e – non ho tempo.
Quindi leggere è passato ad essere, da un investimento del tempo ad una perdita di tempo.
Iniziative di marketing di disperata imbecillità ne abbiamo visti nascere e morire nel volgere di un soffio di vento, dai libri quadrati a forma di cd, a quelli che si leggono in orizzontale, tentativi imbarazzanti, e falliti.
Ma ecco che con una bella capriola all'indietro, dopo qualche anno dal fallimento di “Selezione dal Readers Digest”, spuntano i “Distillati”, belli, super pubblicizzati, rapidissimi. La metà del tempo.
Bene, si potrebbe dire, ricominciamo, riproviamoci, qualcuno verrà acchiappato dalla lettura, dopo un po' vorrà di più.
Non è così, non sarà così, non c'è nessuna spinta “educativa”, soltanto un'idea di marketing per gente stanca e pigra, te la spiccio io, con poche parole. Tanto più che, proprio nella promozione di questa distilleria, si rimarca con forza e con un bel giro di parole, che non si tratta di riduzioni, adattamenti, ma appunto di “distillati”, riscritture che esalano la grappa cartacea, un bicchierino e sei giù ubriaco di letteratura, ci pensano loro a propalarti il meglio, facile, che scende giù e appaga.
Un bel fallimento per una delle nazioni più ricche di cultura e arte del mondo, un solenne fallimento, per un paese che vede i migliori andare via o restare schiacciati da un sistema di non meritocrazia assolutamente radicato. Nel quale, alla fine, leggere non serve, però un pochetto sì, una sveltina libresca mette la coscienza a posto. Distillati per peccatori d'ignavia mentale.
Quello che cinquant'anni fa era una spinta in avanti, oggi è un enorme passo indietro. Una riduzione ai minimi termini di ciò che dovrebbe essere un ampliamento ed uno stimolo al raggiungimento dei massimi termini personali e sociali. Impoverire la lettura, significa, brutalmente, eliminare parole, quindi concetti articolati, idee, coscienza, critica. Cui prodest?

Perché, per attirare lettori, i grandi non pubblicano e pompano come novità straordinarie, nuove, moderne, rapide anche, i libri di racconti, classici ma soprattutto contemporanei migliaia, bellissimi, rapida e abilissima sintesi compiuta di storie, parole e pensieri. E potrebbero essere anche un trampolino a letture più corpose.

Basterebbe la stessa campagna pubblicitaria, applicando la stessa spinta d'appeal e marketing.
Sarebbe un bel salto in avanti, invece no, la scusa è che non si vendono. In realtà non si vendono perché non si vedono come e quanto si potrebbe farli vedere e conoscere.

In Francia, per dirne una, le ferrovie mettono a disposizione dei viaggiatori una biblioteca gratuita di centomila titoli, perché sul treno il tempo di leggere c'è. In Italia siamo ancora al problema enorme dei treni locali gestiti come carri bestiame e solo Le Frecce di mille colori hanno il wifi. E poi, chi legge libri in digitale, pochi, pochissimi, troppo difficile e complicato (sic).

Più efficace vendere un libretto svelto che qualcun altro dice di aver reso perfetto per le tue esigenze di lettore gazzella che ogni giorno si sveglia per fuggire dal leone del proprio pensare.
Più facile vendere grappa di Buddenbrock o un Martini Fitzgerald. Il resto si butta, anzi evapora via per naturale processo editoriale di distillazione.

Risuonano oggi, più sinistre e attuali che mai queste parole:
Noi non vogliamo convincere le persone delle nostre idee, noi vogliamo ridurre il vocabolario, in modo che possano esprimere soltanto le nostre idee.”

Funziona. Pare l'abbia detto Goebbels.




Un fervore un po' freddo



È forse uno dei casi editoriali del momento o perlomeno se ne parla molto. Ecco quindi che, spinta dalla curiosità, mi accingo a leggere il nuovo romanzo di Emanuele Tonon, “Fervore”, edito da Mondadori. L'argomento, un anno di noviziato nel convento francescano di Renacavata, nel Centro Italia e il coinvolgimento diretto dell'autore che parla di un'esperienza autobiografica sono tutti dati a favore: questo libro, viste le premesse, mi intriga. Parto quindi a leggere con entusiasmo e senza pregiudizi. Certo che quando fin dalle prime pagine mi imbatto in espressioni come “dossologia del vento” ("ogni alba il nostro fiato diventava una dossologia del vento") o in frasi tipo: "Eravamo la glossolalia finale", resto un attimo perplessa. Il linguaggio è ambizioso, poetico e richiede la presenza dello Zanichelli (e qui potrei fare un primo appunto: autori, per chi scrivete? Pensate che il vostro lettore medio abbia fatto l'Accademia della Crusca e che usi quotidianamente termini come “dossologia” e “eoni” o al contrario lo reputate così inferiore e sprovveduto da sentire il bisogno di marcare l'abisso culturale che vi divide? Non è chiaro). Tonon descrive un personaggio corale e infatti usa sempre la prima persona plurale: noi. Racconta, con un linguaggio volutamente anti-naturalistico, il gruppo dei novizi, un insieme in cui non esistono più volti, corpi, storie ma dove le individidualità sono sostituite e riassunte da un unico fervore. È un percorso fatto di azioni che si ripetono, di luoghi che racchiudono segreti, una narrazione visiva, olfattiva, acustica che passa attraverso le sensazioni. Anche noi sentiamo il freddo delle stanze destinate alla preghiera, l'alito cattivo dei monaci, la ruvidezza del saio, l'odore della terra che i novizi lavorano nella speranza di seminare qualcosa che crescerà, ascoltiamo le voci stridule che cantano cercando l'accordo, percepiamo la voglia dei corpi di unirsi in un contatto carnale o forse solo umano e la colpa che spinge a percepirsi invece anima angelica, senza bisogni e desideri. Si capisce tra le righe che per la maggior parte degli aspiranti sacerdoti la vocazione religiosa, piuttosto che una chiamata spirituale, sia l'unica soluzione possibile, una fuga dalla miseria o dalla disperazione personale, il tentativo di sublimare il dolore di un'esistenza allo sbando in qualcosa di nobile e alto, forse per non sentirlo davvero. Il libro è diviso in capitoli che però non scandiscono un percorso, casomai focalizzano alcuni momenti di quell'anno di noviziato. Forse il più bello è “Il dolore del canarino”, dove finalmente l'autore ci dà qualche notizia su di sé, sulle motivazioni che l'hanno spinto alla scelta del convento. Tra le righe si intravede per la prima volta il diciottenne costretto a dieci ore al giorno di lavoro in fabbrica, il ragazzo che sta stretto in una vita ingiusta, che non può permettersi la tuta da sci nella settimana bianca scolastica e fa la pipì a letto a dieci anni perchè sente l'umiliazione della carità, l'adolescente ribelle che lascia la famiglia e cerca in Dio l'amore mai ricevuto. Ed è questo il vero problema del libro. È come se ci fossero due autori: quello che vorrebbe svelarci il volto del protagonista, che ci parla della sua vulnerabilità da canarino, della differenza sociale, della solitudine, dell'emarginazione che lo spinge a sentirsi parte di un progetto esistenziale condiviso e quello che cerca invece il tono aulico, l'ampollosità dei termini, e porta avanti la narrazione epica di quel noi dall'inizio alla fine, come un mantra anestetizzante. Alla fine però, purtroppo, il secondo narratore nasconde il primo e il romanzo ripete e ripete lo stesso concetto, gli stessi temi senza stupirci con un contrasto, con un percorso personale, con una presa di coscienza, diventando alla lunga noioso e restando generico.

©Laura Forti

Fervore
di Emanuele Tonon
Mondadori editore
ISBN: 880465046X






mercoledì 3 febbraio 2016

Intervista a Francesco Randazzo

SU UNFOLDING ROMA






FRANCESCO RANDAZZO: L'INCONTRO E IL VIAGGIO NELLA CITTÀ DEL "GIOVANE" E DEL VECCHIO, DIVENTANO, ATTRAVERSO IL CONFRONTO, LO SCONTRO E INFINE L'EMPATIA, SIMBOLICI DI UNO SCAMBIO DI PENSIERI, ESPERIENZE E FALLIMENTI CHE OGNI VITA, OGNI GENERAZIONE PORTA CON SÉ.


In che modo sceglie le storie? O in che modo loro scelgono lei?
Vivere è incontrare continuamente storie. Ci si sceglie a vicenda.

martedì 2 febbraio 2016

Paolo Poli recita “I fiori” di Palazzeschi

Ma oggi, 2 febbraio, ricorre anche la nascita di Aldo Palazzeschi e noi gli rendiamo omaggio qui su Daimon con la poesia "I fiori", interpretata dal sempre magnifico Paolo Poli, che ne ha fatto uno dei cavalli di battaglia della sua lunga e brillante carriera.


James Joyce


"Thirtyish academic wishes to meet woman who's interested in Mozart, James Joyce and sodomy." (Woody Allen). 

 Oggi ricorre la nascita di James Joyce. Ammettiamolo: forse pochi hanno letto l'Ulisse per intero; ma sicuramente Joyce è stato uno degli autori più citati e conosciuti al mondo, autorevole in letteratura come Shakespeare lo è stato per il teatro. Il suo Ulisse è una Bibbia per i romanzieri di tutti i tempi, i suoi Dubliners sono una miniera di ispirazione, di personaggi e di atmosfere. E' stato un innovatore, alla stregua di Picasso; la sua tecnica del flusso di coscienza ha scardinato il modo di scrivere della sua epoca e rivoluzionato la concezione del romanzo ispirando moltissimi autori, scrittori, cineasti come dimostra questa battuta di Woody Allen in Annie Hall e perfino star del pop come Kate Bush che ha trasposto in musica il famoso monologo di Molly Bloom, Van Morrison che lo cita in ben due canzoni e perfino i Beatles. Lo ricordiamo con questo stralcio da uno dei suoi racconti più noti, “The Dead”, tratto dai “Dubliners” (1914). 

 "Gabriel, appoggiato sul gomito, la guardò per alcuni istanti, senza rancore, i capelli scomposti e la bocca semiaperta, ascoltandone il profondo respiro. Dunque c'era un romanzo nella sua vita: un uomo era morto per lei. Sentiva un'acuta sensazione di pena ora, pensando alla misera parte che lui, il marito, aveva avuto nella sua vita. La osservava, mentre dormiva, come se non avessero mai vissuto insieme da uomo e donna. I suoi occhi curiosi indugiarono a lungo sul suo viso e sui suoi capelli e, mentre pensava a quella che doveva essere stata allora, al tempo della sua bellezza di fanciulla, una strana, benevola pietà per lei gli penetrò nell'anima. Non voleva ammettere neppure con se stesso che il suo viso non era più bello, ma sapeva che non era il viso per il quale Michael Furey aveva sfidato la morte. Forse non gli aveva raccontato tutto (...) L'aria della stanza gli faceva sentire freddo alle spalle. Si lasciò scivolare pian piano sotto il lenzuolo e si coricò vicino alla moglie. A uno a uno sarebbero diventati tutti delle ombre. Meglio passare a miglior vita baldanzosamente, nel pieno splendore di qualche passione, piuttosto che appassire e spegnersi lentamente di vecchiaia. Pensava a come colei che gli giaceva accanto avesse per tanti anni custodito gelosamente nel cuore l'immagine degli occhi del suo innamorato, quando le aveva detto che non desiderava vivere. Lacrime generose riempirono gli occhi di Gabriel. Lui non lo aveva mai provato per nessuna donna, ma sapeva che un sentimento simile doveva essere amore. Le lacrime gli salirono più abbondanti agli occhi, e, nella semioscurità, immaginò di vedere la sagoma di un giovinetto in piedi sotto un albero gocciolante. Altre figure gli erano vicino. La sua anima si era avvicinata a quella regione dove abita l'immensa schiera dei morti. Era consapevole della loro esistenza aerea e incorporea, ma non poteva afferrarla. La sua stessa identità svaniva in un grigio mondo impalpabile: lo stesso solido mondo, in cui questi morti avevano operato e vissuto, si dissolveva e svaniva. Un leggero picchiare sui vetri lo fece girare verso la finestra. Aveva ricominciato a nevicare. Osservò assonnato i fiocchi, argentei e scuri, cadere obliquamente contro il lampione. Era tempo per lui di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i giornali avevano ragione: nevicava in tutta l'Irlanda. La neve cadeva su ogni punto dell'oscura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva lenta sulla palude di Allen e, più a ovest, sulle onde scure e tumultuose dello Shannon. Cadeva anche sopra ogni punto del solitario cimitero sulla collina dove era sepolto Michael Furey. Si ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l'universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti".

©Laura Forti