«Non c'è nulla di sorprendente come la vita. Tranne lo scrivere.» (Ibn Zerhani)

«La lettura rende un uomo completo, la conversazione lo rende agile di spirito e la scrittura lo rende esatto.» (Francis Bacon)

«Si legge quello che piace leggere, ma non si scrive quello che si vorrebbe scrivere, bensì quello che si è capaci di scrivere.» (Jorge Luis Borges)

domenica 31 gennaio 2016

Daimon ha letto per voi "Il ritratto della salute" di Chiara Stoppa


Chiara Stoppa, attrice, ha scritto un monologo sulla sua malattia e continua a portarlo in teatro. Da quel monologo è nato un libro, “Il ritratto della salute” edito da Mondadori. Daimon l'ha letto per voi, ecco la recensione. Preparatevi. Questo intenso monologo di Chiara Stoppa, nato per il teatro e diventato un libro, è devastante. Racconta l'esperienza autobiografica di Chiara che a ventisei anni, mentre fa l'attrice ed è in tournèe, si scopre stanca. E dai, sforzati, le dicono i compagni, che all'inizio non capiscono, non sospettano e pensano solo a un po' di pigrizia. Ma la stanchezza continua e comincia a diventare invalidante fino al crollo e alla diagnosi di avere un cancro. Però Chiara è una guerriera e non molla. Si sottopone ale cure con coraggio, senza perdere la sua ironia, circondata da amici che la accudiscono e riescono a farla sorridere anche se si tratta di scherzare sui capelli che cadono a ciocche e sulla nuova rasatura che la fa assomigliare allo zio Fester degli Addams. C'è una madre che resta vicina, sempre. C'è una famiglia che fa il tifo. D'altra parte c'è un sistema, quello dell'ospedale, della burocrazia, dei protocolli sanitari, degli infermieri a volte umani a volte brutali, senza mai un sorriso, dei medici che considerano i pazienti degli oggetti, delle cavie asettiche su cui fare degli esperimenti. E inizia la paura, quella vera, quella che tiene nelle sue morse il cuore prima di ogni controllo, prima di ogni risposta degli esami. Purtroppo Chiara appartiene a una piccola percentuale, quello di coloro che non reagiscono alle cure. Serve un trapianto e l'unica donatrice è la sorella anche se la compatibilità è solo del 50%. Ma proprio quando tutto sarebbe pronto per l'operazione Chiara rifiuta. Dice no, io scendo, smetto. Buum. Perchè lo fa, si chiede il lettore? Perchè è stanca, perchè non vuole che la sorella si senta in colpa se lei muore, se il trapianto non funzionerà? Perchè è fatalista, coraggiosa? Un'incoscienza dicono i medici. Forse. Chiara adesso è viva, è una bella ragazza piena di talento, che continua a portare a teatro la sua storia. Il suo libro non deve servire da esempio, come strada da seguire la sua storia è un caso, è andata così; casomai la sua testimonianza fa fare una riflessione imporatnte; spesso tendiamo a identificare la persona con la malattia. Il malato perde la sua umanità, la sua identità diventa tutt'uno con il suo cancro. Chiara ha voluto dire che intorno a quel tumore, dietro, invece c'era una persona, c'era lei. E lei non voleva più essere agita, parlata, voleva riprendere in mano la sua vita, uscire dalla campana del dolore e dei trattamenti, voleva tornare a comunicare con il suo corpo che le era diventato estraneo, cattivo. “Ero in uno stagno da troppo tempo. Avevo solo voglia di tirarci una pietra e muovere l’acqua. Basta aspettare. Vivere invece. Per quanto? Non lo so, ma vivere. Fino ad allora non avevo vissuto, avevo aspettato la guarigione”. Da leggere.

©Laura Forti








Chiara Stoppa
Il ritratto della salute
Mondadori
ISBN 9788804646822


Laura Forti domani recensisce per "Il Segnalibro" (Radio Svizzera italiana, Rete Due) "La comparsa" di Avraham Yehoshua. Vai su http://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/il-segnalibro/Abraham-Yehoshua-La-comparsa-Einaudi-6796154.html

sabato 30 gennaio 2016

Dáimōn: Servizi per gli Editori



Facciamo un servizio di lettura professionale testi e di eventuale editing, traduzioni e scouting per gli editori che vogliono collaborare con noi a prezzi competitivi ma di grande efficienza e professionalità.

Adattamenti dei grandi classici della letteratura in edizioni per ragazzi.

Realizzazione di audiolibri.

Creiamo ebook a partire dai vostri libri, realizziamo booktrailer, videointerviste e campagne virali sul web.

Visita il nostro sito e contattaci.

Narrative four. Attraverso la narrazione, si può cambiare il mondo.


Assaf Gavron, di cui abbiamo riportato l'intervista, fa parte di Narrative 4 (http://www.narrative4.com/) come molti altri scrittori, artisti da tutto il mondo, studenti e educatori. Narrative 4 comprende un gruppo di scrittori, perlopiù americani. Il loro progetto è di creare incontri tra le persone; l'attenzione si è concentrata all'inizio in particolar modo sui teen agers, con l'obbiettivo di superare barriere sociali, economiche, religiose e di rompere stereotipi e pregiudizi; questo incontro potrebbe avvenire tra ragazzi della media borghesia e ragazzi che abitano in un ghetto, o tra ragazzi di Haiti e New Orleans, che hanno vissuto entrambi la terribile esperienza di un disastro naturale, potrebbe svolgersi in Irlanda, tra bambini irlandesi e inglesi o in Israele tra israeliani e palestinesi. L'idea di Narrative four è che le persone si scambino storie personali: si racconta la propria storia a qualcuno e poi quella persona va a raccontarla a sua volta ai compagni, facendola diventare una storia del proprio gruppo. Cosi' in questo modo si crea empatia – una parola chiave per il progetto – e si formano relazioni umane significative, attraverso la narrazione. Narrative 4 è aperto a tutti, a individui di tutti i paesi; ognuno può raccontare la propria storia, basta che sia qualcosa di importante per chi l'ha vissuta. Se qualcuno può ascoltare la storia di un altro e ridirla con le proprie parole, e poi avviene uno scambio, anche quel qualcuno dice la sua storia e l'altro l'ascolta, allora quelle due persone avranno condiviso la loro visione del mondo: si saranno guardate negli occhi, avranno trovato un ascolto e un contatto senza giudizio, si saranno davvero scambite emozioni e esperienze profonde della loro vita. In questo modo, attraverso l'arte dello story-telling, linguaggio e letteratura diventano strumenti importanti per creare una società migliore.


Daimon oggi intervista Assaf Gavron

Daimon oggi intervista Assaf Gavron.
Domanda. Quello che colpisce nel tuo libro – e anche nella tua opera precedente – è la voglia di non cedere allo stereotipo, di raccontare la vita, le persone nella loro complessità sia che si tratti dei coloni della Collina che del Kamikaze in La tua storia la mia storia. Spesso queste tue storie nascono anche da interviste a persone, da tue ricerche sul campo, per un bisogno di conoscere da vicino le situazioni di cui parli. Qual'è stato il lavoro di preparazione? Hai incontrato persone che hanno influenzato i personaggi o le dinamiche dei tuoi racconti?
Gavron: E' stato piuttosto andare nei territori della Cisgiordania, negli insediamenti, sedersi là e guardarli più che conversarci; naturalmente si parla molto dei coloni dappertutto, nei media, nei film, nei notiziari, ci sono alcuni personaggi pubblici, dei leaders, che fanno spesso dichiarazioni pubbliche, e parte di tutto questo è confluito nella voce dei personaggi, e alcune conversazioni che ho fatto con le persone che ho incontrato,. E' stato soprattutto assorbire l'atmosfera; la ricerca è importante per entrare nei sentimenti del luogo. Queste persone, le persone dei territori sono molto interessanti perché hanno influenzato la mia vita, il modo in cui le cose sono andate nel mio paese ma hanno anche storie e vite molto interessanti: perché alcuni di loro scelgono di diventare un kamikaze che si fa saltare, che cosa spinge una persona a farlo o a diventare un colono? In entrambe i casi, mi piace cercare di capirlo, mi piacciono le persone che fanno parte di questo puzzle, del Medio Oriente, di Israele, della Palestina, sono persone molto appassionate e questo comporta che abbiano vite molto affascinanti. I coloni vivono in zone molto violente, in condizioni estreme e sono motivati dall'ideologia più che dall'interesse personale, sono molto diversi da me, dalla maggior parte delle persone che conosco e mi interessa andare a incontrarli; naturalmente ci sono conseguenze perché le opinioni sono diverse, ci sono implicazioni politiche, c'è il pericolo che le persone leggano questo da un punto di vista politico. 
Domanda: Si parla anche del contrasto tra burocrazia che vuole distruggere l'insediamento per mantenere l'ordine e la volontà, la passione delle persone che hanno creato un loro luogo con proprie regole. Tutte e due le cose hanno ragioni e limiti. Come vivi tu il rapporto tra burocrazia e bisogni dell'individuo nel tuo paese?
Gavron: In un certo senso gli insediamenti fanno parte della creazione di Israele, questo riunirsi, rinunciare al benessere e alla convenienza individuale, alla ricchezza personale, per costruire qualcosa per la Società, fa parte dello spirito originario di Israele e i coloni si sentono gli unici ormai a portare avanti questa concezione; ma la domanda è ne abbiamo bisogno? Ne abbiamo bisogno là, con tutti i problemi che può creare? Sono d'accordo che in qualche modo la burocrazia sia un personaggio del libro perché se ne parla molto, di come i coloni la usino per i loro scopi e la combattano quando cerca di fermarli, è un gioco al gatto e al topo: collaborano in parte con la burocrazia e le autorità e la combattano anche, è una cosa abbastanza unica che accade in Cisgiordania, è molto complicato da capire e spero che nel libro sia riuscito a dare un'idea di cosa succede e a farlo anche con un certo humour perché in qualche modo è presente un certo senso dell'assurdo.
Domanda: E infine, un'ultima domanda di rito, quali sono i tuoi progetti futuri?
Gavron: Sto lavorando a un nuovo romanzo dovrebbe uscire in ebraico l'estate prossima è già quasi pronto è una storia che è più leggera in qualche modo della Collina, la Collina è un romanzo intenso, con molti personaggi e storie e argomenti impegnativi anche se lo stile è leggero; questo è una specie di thriller che coinvolge persone anziane ed è ambientato all'epoca del mandato inglese dal 1917 al 1948 ma nello specifico tratta di un evento successo nel 1946, un evento che ha coinvolto quattro dei personaggi che all'epoca erano giovani, sono due soldati inglesi che erano in servizio in Israele e due ragazze ebree, che all'epoca avevano tra i 17 e i 18 anni, e intrecciano una storia romantica ma sono coinvolti anche della situazione politica e ora nel 2013 60 anni dopo, questo evento riemerge dal passato e loro iniziano a confrontarcisi in un modo interessante, le persone muoiono, scompaiono, questa è la storia; un altro progetto è un saggio che sto scrivendo e che sarà pubblicato negli Stati Uniti insieme ad altri scrittori, molto famosi, alcuni anche Nobel per la letteratura e vincitori di Premi Pulitzer, sarà sull'occupazione e sulla Cisgiordania.

New York Public Library



La New York Public Library ha reso disponibili 187.000 documenti di pubblico dominio tra fotografie, illustrazioni, antiche stampe, vecchie mappe, atlanti ingialliti, cartoline d’altri tempi. 

Anche solo per rifarsi gli occhi, utilissimo per chi fa ricerche, affascinante per i bibliofili, posto ideale per curiosare.




(notizia ripresa da Fondazione Fitzcarraldo)

venerdì 29 gennaio 2016

Buon compleanno Anton!



Oggi ricorre la nascita di Anton Cechov. Scrittore cui tutti (anche chi non lo sa) dobbiamo qualcosa d'importante. Rappresentatissimo in teatro, è stato però, e per questo famosissimo ai suoi tempi, un grande scrittore di racconti. Anche il cinema ha, dichiaratamente o velatamente, saccheggiato a piene mani i soggetti delle sue storie.
Il nostro piccolo omaggio è un breve estratto dal suo racconto "Reparto n° 6".





Ivan Dmitric,  sollevandosi sul gomito dal giaciglio su cui stava sdraiato, tese allarmato  l'orecchio  alla  voce  estranea,  e  di colpo riconobbe il dottore.  Tutto  fremente d'ira,  saltò a terra,  e col viso congestionato  e  cattivo,  gli  occhi sbarrati, corse nel mezzo dello stanzone.  - E' venuto il dottore! - gridò, e ruppe in una sghignazzata. - Finalmente!  Signori,  i  miei rallegramenti: il dottore ci degna d'una visita!  Rettile  maledetto!  - stridette,  e in un trasporto di furore,  come ancora non  lo  avevano  mai  visto  qui dentro,  pestò col piede sul pavimento.  - Bisogna  ammazzarlo, questo rettile! No, ammazzarlo è poco: affogatelo in un cesso!  Andrej Efimyc, a quelle grida, dall'atrio allungò un'occhiata in corsia,  e  domandò col suo tono molle:  - Ma che c'è?  -  Che  c'è?  -  gridò  Ivan  Dmitric,  avvicinandosi  a  lui  con  un'aria  minacciosa,  mentre febbrilmente s'avvoltolava nella vestaglia.  - Che c'è?  Ladro!  - sbottò con avversione,  facendo con le labbra una smorfia come se  volesse sputare. - Ciarlatano! Boia!  - Calmatevi,  - disse Andrej Efimyc,  con un sorriso colpevole.  - Vi posso  garantire che io non ho mai rubato nulla: quanto al resto poi,  è probabile  che esageriate molto.  Vedo bene che siete inquieto con me.  Calmatevi,  vi  prego, se potete; e ditemi a mente fredda: perché siete così inquieto?  - E perché, voi, mi tenete qui?  - Perché siete malato.  -  Sì,  sarò malato.  Ma ci sono,  vero?,  diecine,  centinaia di pazzi che  girano in libertà,  per la ragione che la vostra ignoranza  è  incapace  di  distinguerli dai sani.  E perché mai, dunque, io e questi altri disgraziati  dobbiamo stare  rinchiusi  qui  dentro  per  conto  di  tutti,  come  capri  espiatori? 

martedì 26 gennaio 2016

Benvenuti




Ben arrivati al blog webzine di Dáimōn, qui pubblicheremo articoli e segnalazioni, link e video, di carattere letterario e culturale. 

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lunedì 25 gennaio 2016

Quel treno per Auschwitz




Quando la minore delle sorelle Bucci, Andra, è entrata per la prima volta nel padiglione israeliano a Auschwitz – un padiglione molto bello, emozionante, dotato di grandi immagini video proiettate sui muri bianchi, coperti da decine di copie di disegni fatti dai bambini del campo – per un attimo il cuore le si è fermato. Davanti a uno di questi disegni dai tratti incerti, infantili, raffigurante il treno della deportazione, qualcosa dentro di lei si è sbloccato, è rinato come in un'epifania dolorosa. Andra non riusciva a ricordare niente di quel viaggio verso Auschwitz, fatto ad appena quattro anni, insieme alla madre e alla sorella Tatiana, e adesso, grazie all'immagine disegnata da un altro bambino, quel treno aveva ripreso vita, i ricordi erano tornati all'improvviso, dopo settant'anni. Era di nuovo là, su quel vagone piombato con le due piccole finestre in alto, il secchio per i bisogni corporali di centinaia di persone stipate, un po' di pagliericcio per terra per un viaggio di una settimana. Anche se non possiamo certo paragonarci a Andria e alla sua storia, anche per noi andare ad Auschwitz è stato un po' come ritrovare quel disegno fatto da un altro bambino. Enrico, mio marito, in quel lager ha perso il nonno e il bisnonno e ha dovuto spezzare il silenzio di suo padre e della nonna paterna per sapere, per conoscere qualche frammento di memoria familiare; io ho vissuto invece la Shoah attraverso una madre cacciata da scuola a undici anni che si è ritrovata a nascondersi, a fare il partigiano nella macchia grossetana armata di pistola in quanto ebrea e ha provato lo shock di essere sopravvissuta a cugini e amici finiti nel fumo. La nostra infanzia è stata minacciata da questo uccello nero rapace, da questa belva cattiva, dall' ombra pericolosa del paese del Laggiù, come lo chiama David Grossman in “Vedi alla voce amore”. Siamo stati anche noi dei piccoli Momik, confusi e impotenti. Abbiamo letto tutti i libri possibili, abbiamo visto film, abbiamo voluto sapere tutto fin nei minimi dettagli, bere fino all'ultima goccia di informazione e racconto. Abbiamo fatto spettacoli e scritto testi sulla Shoah. Ma adesso, essere qui, ad Auschwitz, è diverso. E' ritrovare il posto tanto temuto nella nostra infanzia, la tana dell'orco, riconoscerlo come lo scenario dei propri incubi e nello stesso tempo attribuirgli una nuova terribile concretezza che lo radica nella realtà, spostandolo dal piano della fantasia solitaria a quello degli altri: loro, le vittime. Questo non è più l'Auschwitz di singoli bambini spaventati da una creatura delle tenebre, terribile e perversa, è l'Auschwitz della realtà. Il viaggio ha significato entrare a poco a poco in un disegno incerto che si riempiva sempre più di particolari, frecce, connessioni, è stato un lento sprofondare in un fango freddo e viscido, una discesa in un abisso sordo da cui ora è difficile riemergere. No, non è la stessa cosa pensarlo da casa, è diverso esserci. E' importante esserci, far schiudere l'uovo del male e assistere alla nascita del mostro. Ci sono cose che prima non sapevo e adesso so. So che quando Tatiana Bucci parlava della baracca dei bambini io potevo vederla davanti agli occhi perchè ci ero appena stata. Sapevo com'era fatta quella maledetta baracca, vedevo le travi mangiate dall'umidità, i ripiani che fungevano da letti, la finta stufa mai accesa, i piccoli lavandini senza acqua con l'appoggio per un pezzo di sapone mai ricevuto. Sapevo che i bambini ci stavano ammassati come animaletti braccati, che di giorno giocavano davanti allo spiazzo spelacchiato – perchè l'erba se la mangiavano – incustoditi, esposti al freddo che a Cracovia arriva anche a meno quaranta gradi in inverno. Che la mansione più ambita era spingere il carro dei cadaveri, un lavoro faticoso e durissimo ma che almeno dava la possibilità di attraversare il campo e di rivedere la mamma, sogno e speranza di tutti (un sogno che i nazisti conoscevano bene, quando Mengele ebbe bisogno di venti bambini per i suoi esperimenti sulla tbc, chiese al gruppo quanti volessero rivedere la loro mamma; quei venti, tra cui il cuginetto delle Bucci, Sergio, finirono impiccati a Bullenhuser Damm dopo atroci torture). Grazie alla nostra guida italiana, Michele, adesso so che la vita media a Birkenau dall'arrivo era di quaranta minuti per l'80% dei prigionieri. Che le donne ritenute inabili a lavorare venivano mandate in una baracca (vista, anche quella) a aspettare di essere gassate e vi potevano rimanere anche per giorni senza ricevere cibo perchè tanto erano destinate alla morte (perchè sprecare risorse?) sole, disperate, dimenticate. Posso sentire il silenzio sinistro dello Zigeunerlager, la zona dove c'erano le baracche degli zingari, un campo rumoroso, addirittura vitale, dove i detenuti potevano suonare i loro strumenti, pieno di bambini che nonostante tutto giocavano e facevano chiasso: in una sola notte di agosto i nazisti lo “evacuarono”, gassarono 2897 prigionieri. La metà erano quei bambini. La mattina dopo nel campo non si sentiva più un fiato, solo le porte delle baracche che sbattevano nella desolazione. Posso ritrovarmi davanti alla discesa per le camere a gas, ormai smantellate ma non meno inquietanti, i crematori ridotti a cumuli di mattoni rossi, immaginarmi migliaia di persone stipate in quel lungo corridoio costrette a denudarsi davanti a estranei con la subdola promessa che avrebbero ritrovato i loro indumenti dopo la doccia (“per non perdere le scarpe, prego annodarle tra loro”) e poi stipate nella camera a gas dove granelli di Zyklon B le avrebbero uccise per soffocamento interno – a volte ci volevano anche quindici minuti, una morte dolorosissima, per nulla un andarsene nel sonno come si può pensare da casa). Posso vedere le madri morire schiacciate dal groviglio dei corpi tenendo in alto sulle loro teste i propri figli nella speranza assurda di un po' di ossigeno. Posso vedere cos'era il Canada (la zona della ricchezza, grande umorismo nazista) dove venivano depositati i beni strappati ai gassati che erano partiti portandosi dietro con ingenuità piatti, utensili e padelle, oggetti utili per il trasloco pensando davvero che avrebbero trovato un campo di lavoro, i laghetti dove venivano buttate le ceneri, molto utili tra l'altro anche a nutrire i pesci, a fermentare i campi o buttate sulle neve per non far scivolare i camion. Posso vedere i detenuti fatti spogliare nella foresta di betulle (Birkenau vuol dire bosco delle betulle) e fatti correre direttamente nudi alle camere a gas nonostante il gelo oppure fucilati e bruciati su cataste, posso vedere dove venivano tosati con forbici da animali davanti al ghigno dei soldati, tatuati con un numero che sarebbe diventato il loro nome e esposti a docce o freddissime o caldissime per puro divertimento. Ad Auschwitz 1, quello con la storica scritta Arbeit macht frei che nel 2009 qualche sciacallo in cerca di cimeli aveva rubato (adesso è esposta una copia) si entra ed esce dai blocchi, le baracche, dove Benigni ha girato La vita è bella e in ogni angolo ancora io posso vedere. La baracca 21, l'infermeria dove i detenuti venivano uccisi con iniezioni di fenolo nel cuore e le donne sottoposte a esperimenti sulla sterilità da noti ginecologi. Ecco l'angolo della forca dove la nostra guida di oggi, stavolta polacca, tende a sottolineare che furono impiccati molti connazionali (è molto importante per i polacchi sottolineare la loro parte in causa come vittime, fino all'eccesso comico involontario a volte: vuoi vedere che erano loro i migliori amici degli ebrei? Eppure a Cracovia adesso di ebrei ce ne sono solo centocinquanta, se non si vogliono contare le caricature antisemite in legno che si trovano abbondantemente nel mercatino di attrazioni turistiche) e dove il più giovane un ragazzino di sedici anni riuscì a scalciare lo sgabello da sotto i piedi da solo, ribellandosi almeno con questo gesto ai suoi carnefici. Posso vedere il muro delle fucilazioni dove i prigionieri venivano appesi a un gancio finchè gli arti non cedevano e poi naturalmente fucilati in massa davanti a pareti antiproiettile che dovevano anche attutire il rumore dei colpi per non spaventare gli altri e far degenerare il panico. E poi naturalmente posso vedere l'orrore puro: le due tonnellate di capelli (e sono solo una parte) usate per fare calzini per le truppe, i chili di pelle umana usata per realizzare cartoline di auguri, le protesi, gli occhiali, le scarpe scompagnate, migliaia di scarpe, le valigie con i nomi scritti sopra. Ecco, adesso posso vedere tutto quello che mi ha terrorizzato fin da piccola. Non è più una mia fantasia solitaria. Lo vediamo tutti. Io insieme ai quasi seicento studenti della Regione Toscana che sono venuti con noi e che hanno dato a questo viaggio un ulteriore senso e anche una speranza. L'orrore sta lì davanti a noi, dentro di noi, quel noi collettivo su cui deve basarsi la memoria. Ma perchè la memoria non resti, come scrive l'autore teatrale che prediligo, George Tabori, un grande mare ghiacciato, una lastra spessa tra noi e la verità è necessario a volte affondarvi un colpo d'ascia che rompa la superficie indurita, che faccia rifluire la vita, anche se il calore può essere dolorosissimo, come probabilmente è stato per Andra Bucci tornare su quel treno su cui fu costretta a montare da bambina. E' necessaria l'epifania dolorosa. E' necessario che ce la prendiamo su di noi, la memoria, che la facciamo diventare parte dei nostri corpi, fisica, concreta, che offriamo i nostri occhi, che diventiamo noi i prossimi testimoni, visto che quelli storici ci stanno abbandonando. Per essere i nuovi testimoni è necessaria preparazione storica e tanta immaginazione – come disse una sopravvissuta a Freddie Rokem studioso israeliano del teatro della Shoah che le chiedeva come avrebbe potuto parlare dei campi, lui, senza esserci stato : “Usi tanta immaginazione, caro” gli rispose lei, soave. Immaginazione per entrare in quei disegni, coraggio per affrontare il fango viscido e schifoso e forza per tornare indietro. Anche se duro, anche se difficile, io consiglio questo viaggio a Auschwitz. Consiglio di diventare quegli occhi, di prendere questo treno.

©Laura Forti

Sumeri del terzo millennio




L'odore dei libri è meraviglioso. La consistenza della pagina un'esperienza sensoriale magnifica. Le copertine seducenti ammiccamenti. Di questo sono convinto anch'io. Amo i libri, da sempre. Nel corso del tempo ne ho accumulati quattromila o giù di lì. Una casa senza libri per me è vuota, e non lo nego, mi ispira il sospetto dell'ignoranza. La mia casa l'ho anche scelta proprio pensando allo spazio per loro, c'era. Or non c'è più. Gioie e dolori del bibliofilo. Ci sono anche controindicazioni. I libri pesano, pesano molto. I libri occupano spazio, parecchio. Si accumulano e invadono ogni spazio libero. Vanno in seconda fila, in terza. Finiscono negli scatoloni, nei magazzini, nei garage. Se viaggi spesso, come faccio io, per lavoro o vacanza e vuoi portarti da leggere, studiare, etc. ti sobbarchi chili e chili di soma al costo degli esosi sovrapprezzi che le compagnie aeree esigono o di lombalgie e colpi della strega che con l'età diventano croniche ernie discali.Così, ad un certo momento, sei mesi fa, ho comprato un ebook reader. La parola è un po' scostante, poco attraente, bisogna ammetterlo; d'altra parte "lettore di libri elettronici" fa passare la voglia di leggere mentre lo pronunci. Ciononostante l'ho comprato. Al prezzo di circa sei/sette libri di fascia media.È una tavoletta. Tipo quelle dell'antichità. Non è un tablet. È una tavoletta priva di luce. Si ricopre di lettere, frasi, narrazioni, rotoli, papiri, libri insomma. Per leggere si ha bisogno di una luce esterna, esattamente come per un libro cartaceo. Non si stanca minimamente la vista. Pesa pochissimo. "Infinite Jest", per esempio, lo si legge reggendolo con una mano. Lo Zanichelli, idem. La magica tavoletta sumera può contenere migliaia di libri. Li si porta appresso e pesano sempre soltanto quanto la tavoletta (duecento grammi circa). Sono sempre disponibili, si possono sottolineare, ogni libro si ricorda a che pagina eri l'ultima volta che l'hai aperto, se non sai il significato di una parola (o vuoi tradurne una straniera) si va sopra col cursore e si apre una nota del dizionario che spiega tutto. Non è poco.Se voglio comprare un libro, vado on line con il wifi e in pochi minuti ce l'ho già dentro la tavoletta. E costano meno, non tanto meno quanto potrebbero, secondo me, comunque di meno, mediamente il trenta per cento. Ma in rete si trovano migliaia di titoli, i classici per esempio, gratuitamente. Ci sono anche dei siti di sharing tra lettori. Insomma questo per dire che anche economicamente conviene. E il costo per l'acquisto della tavoletta si ammortizza velocemente.Come un Sumero o un antico romano, ormai vado in giro ovunque con la mia tavoletta. Leggo saporitamente. Molto, come al solito. Forse anche di più.L'odore dei libri mi circonda ugualmente, visto che la mia casa ne è piena, ma quest'arte antica della tavoletta sumera, è molto, molto pratica e utile, ha persino un suo fascino tenere in mano quest'antenato del libro che sfrutta la tecnologia più avanzata per un piacere antico, sempre attuale: leggere.I miei libri non sono invidiosi. Anzi, si sentono degli eletti, perché grazie alla tavoletta, sanno che per occupare spazio negli scaffali, se lo devono meritare. Stanno là, difatti, e ogni tanto qualche altro li raggiunge, per merito ovviamente. Ogni tanto mi viene persino voglia di avvolgermi in un lenzuolo a mò di toga e con la tavoletta in mano, immortalarmi in un autoscatto (con la camera diglitale, ovviamente), stile Seneca, va'. Ma questi sono ghiribizzi strambi. Leggere è una cosa seria. E divertente.As do you like it.Eh, sì, lo so che Seneca coi sumeri non c'entra niente, ma un costume da sumero dove lo trovo?Ah, sì, lo so, le tavolette sumere pesavano un accidente, peggio dei libri... Ma pensate che se i Sumeri avessero avuto la tecnologia che abbiamo oggi non l'avrebbero usata?
©francescorandazzo